Avanti online, 15 Novembre 2019
Le continue crisi del capitalismo occidentale hanno compromesso la prosperità e il benessere dei cittadini, aumentato le disuguaglianze, ridotto la crescita, abbassato i salari e “generato una crisi di aspettative e di fiducia nel futuro che ha capovolto l’ottimismo dei decenni passati”. Il capitalismo, a parere di Pino Arlacchi, configura oggi la “più grande minaccia alla sicurezza e al benessere di tutti noi”; è questa la tesi che Arlacchi sostiene nel suo libro recente, “I padroni della finanza mondiale. Lo strapotere che ci minaccia e i contromovimenti che lo combattono”.
Non si tratta di una minaccia militare, ma non per questo meno reale, considerando che il capitalismo finanziario, dilagante in gran parte del pianeta, e sorretto dall’ideologia neoliberista, produce effetti devastanti sulla capacità di coesione sociale dei Paesi nei quali esso si manifesta. Coloro che causano tali effetti formano una “cerchia” ristretta di potere che domina la scena economica degli Stati Uniti e dell’Europa, determinandone l’orientamento in fatto di politica economica e di relazioni internazionali.
Tuttavia, per Arlacchi, non si tratta di una “cerchia” onnipotente, in quanto il succedersi continuo di crisi finanziarie ne ridimensiona periodicamente la forza e ne devasta le risorse, alimentando un contropotere col quale il mondo cerca di proteggersi dall’aggressività del capitale finanziario. Come sarà messo in evidenza, seguendo la narrazione di Arlacchi (condotta non senza forzature pregiudiziali di natura ideologica), l’aggressività ha avuto l’effetto di favorire lo sviluppo in parallelo di “un’intera sezione dell’economia e del sistema internazionale” estranea e potenzialmente alternativa al sistema di potere della “piovra finanziaria”.
A partire dagli anni Settanta del secolo scorso, “il capitalismo finanziario e l’ideologia neoliberista sua associata – osserva Arlacchi – sono divenuti i motori più potenti dell’insicurezza umana”; la propaganda neoliberale è riuscita a giustificare l’aggressività del capitale finanziario attraverso l’instaurazione di un “pensiero unico, basato sulla consacrazione feticista del mercato e del mercato finanziario come parte essenziale di esso”. L’inganno do questo “pensiero unico” è consistito nel fare accettare l’idea che non sia possibile risolvere i problemi creati dall’aggressività del capitale finanziario se non contando sulle capacità salvifiche dell’”intervento dei mercati”, ai quali, appunto, si deve l’insorgere di quei problemi.
Chi sono – si chiede Arlacchi – i componenti della “cerchia” di potere che gestisce il capitale finanziario? Sono i “Benksters” di Wall Street e della City di Londra, cioè i capi delle sette-otto maggiori banche d’affari americane ed europee, ricadenti sotto “la definizione rassicurante di ‘investitori istituzionali’: gestori dei fondi pensione e di investimento che tutto sono tranne che tutori delle istituzioni, e dei fondi che gli ignari risparmiatori affidano nelle loro mani”. Sono essi i “manovratori” degli spread e dei prestiti ai governi nazionali, “i ‘figli di Troika’ del FMI, della Commissione europea e della BCE” che, dopo lo scoppio della Grande recessione, “hanno massacrato la Grecia e l’Irlanda, messo in difficoltà la Spagna, l’Italia e il Portogallo, degradato il Regno Unito e fatto traballare nel 2010-2012 la stessa Unione Europea”.
La vicenda del capitale finanziario inizia ben prima degli anni Settanta del secolo scorso, per segnare un ciclo che dura tuttora; il suo punto di partenza risale alla Conferenza di Bretton Woods, che nel 1944 ha fissato l’insieme delle regole adottate, dopo la fine del secondo conflitto mondiale, per il governo delle relazioni commerciali e finanziarie internazionali dei principali Paesi industrializzati del mondo occidentale. Per capirne le implicazioni, occorre tener presente che le determinazioni assunte in occasione di tale Conferenza sono state in realtà il risultato della scelta tra i due progetti elaborati, per conto dei rispettivi governi, da due grandi protagonisti del lavori, sebbene i loro nomi non abbiano avuto la menzione che avrebbero meritato: l’inglese John Maynard Keynes, da un lato, e il sottosegretario al Tesoro USA, Harry Dextter White, dall’altro.
Il progetto di Keynes delineava un “sistema di compensazione multilaterale”, basato sulla creazione di una moneta universale, il “Bancor” (definito in termini di oro e concepito strumento di pagamento dei debiti internazionali), volto ad impedire il crearsi degli squilibri finanziari che, secondo il grande economista inglese, erano tra i motivi principali del conflitto. L’adozione di questa valuta avrebbe evitato la creazione di debiti e crediti tra gli Stati: la quantità di valuta derivante dalle vendite di un Paese non doveva essere accumulata, bensì spesa per l’acquisto di merci in altri Stati. Il “Bancor” sarebbe stato.
Alla proposta britannica, gli Stati Uniti hanno contrapposto un loro progetto di riforma del sistema monetario internazionale; secondo White, i problemi da fronteggiare, una volta terminato il conflitto mondiale, sarebbero stati quelli di prevenire il collasso del sistema del credito e dei cambi esteri, assicurare la restaurazione del commercio internazionale e far fronte all’enorme bisogno di capitali per la ripresa economica mondiale. A tal fine, il sottosegretario statunitense riteneva vitale una collaborazione internazionale, in campo monetario e bancario, garantita da due istituzioni: il “Fondo Monetario Internazionale” e la “Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo”. La prima avrebbe fornito gli strumenti necessari alla stabilizzazione dei tassi di cambio e rafforzato il sistema monetario internazionale; la seconda sarebbe stata invece dotata dei mezzi e del potere necessari per favorire la ricostruzione economica, facilitare la transizione da un’economia di guerra a una di pace e stimolare il commercio e la crescita della produttività internazionale. La necessità primaria per White era quindi quella di creare un “fondo monetario” alimentato dai conferimenti di ciascuno Stato membro, da utilizzare per consentire agli Stati in deficit di affrontare le loro obbligazioni internazionali. Una parte considerevole del conferimento di ogni Stato andava versata in oro; era prevista anche la creazione di una valuta internazionale, l’”Unitas”, con la quale sarebbero stato espressi i conti dei singoli Stati all’interno del Fondo. In questo modo, l’oro, secondo il progetto White, avrebbe assunto la funzione di “strumento unico di riserva internazionale”.
Entrambi i progetti sfioravano l’utopia; ma quello del governo americano, forte del prestigio che gli USA avevano acquisito concorrendo a sconfiggere il nazismo e dell’esperienza del New Deal (che era valso a sperimentare in anticipo le tesi keynesiane per il superamento degli effetti della Grande Depressione del 1929-1932), è riuscito a prevalere. Con esso, a parere di Arlacchi, Roosevelt voleva affermare la possibilità di inaugurare una forma di governo mondiale con un duplice scopo: da un lato, garantire sicurezza per tutti gli Stati, che sarebbe valsa a proteggere “il genere umano non solo dagli esiti dalle guerre, ma anche da quelli del collasso finanziario che le aveva generate”; dall’altro, chiarire che “l’architrave della sicurezza, nel nuovo ordine mondiale, sarebbe stato sì il potere dell’America, ma esso sarebbe stato esercitato attraverso un’istituzione internazionale [l’ONU] e con il consenso di tutti i Paesi della terra, grandi e piccoli, posti formalmente sullo stesso piano”.
Il progetto rooseveltiano, però, non è stato attuato secondo gli intenti originari; dopo la morte del Presidente americano, prima ancora che la guerra finisse, c’è stato l’avvento al potere di Harry Truman, il quale ha ridimensionato, senza cancellarlo, il progetto originario, soprattutto per i “venti di Guerra fredda” che, afferma Arlacchi, sono iniziati a spirare tra Washington e Mosca. La realizzazione dell’utopia rooseveltiana si è concretizzata in un nuovo ordine internazionale, sotto il quale l’Occidente è vissuto sino ai nostri giorni, generando ed attuando quelle politiche che hanno condotto il capitalismo occidentale a coinvolgere, dopo il 1945, in un’area economica internazionale di libero scambio, l’insieme dei Paesi ad economia di mercato e retti da regimi democratici, legati tra loro da vincoli militari, politici ed economici sempre più solidi.
Il progetto rooseveltiano, attraverso gli accordi di Bretton Woods, si è così tradotto in un assetto di governo dei mercati finanziari fondato sull’egemonia del dollaro, un assetto che ha consentito, nei trent’anni successivi alla fine del secondo conflitto mondiale, di creare le condizioni di stabilità finanziaria che hanno assicurato nei Paesi che facevano parte del nuovo ordine internazionale di realizzare “la crescita economica più intensa, prolungata ed equilibrata della storia occidentale.
La presunzione della superpotenza americana di poter governare la liquidità mondiale, rifiutando a Bretton Woods la proposta di Keynes (cioè del rappresentante di un Paese e di un Occidente fortemente indebitati verso gli USA) che venisse creata una “stanza di compensazione” degli attivi e dei passivi della bilancia internazionale di parte corrente, ha manifestato i suoi limiti negli anni Settanta, non a causa della subordinazione della finanza alle esigenze di stabilità in funzione dello crescita economica, ma a causa del “gold dollar standard”, deciso alla Conferenza del 1944.
Il cedimento della potenza del dollaro è stata infatti determinato dal fatto che la crescente liquidità internazionale espressa in valuta statunitense aveva raggiunto, alla fine degli anni Sessanta, un punto oltre il quale l’ammontare del debito degli USA verso le altre banche centrali occidentali avrebbe oltrepassato il valore delle riserve auree detenute dal Tesoro americano. La fine dell’ancoraggio del dollaro all’oro ha comportato anche quella degli accordi di Bretton Woods; per cui, afferma Arlacchi, “i profitti generati dalla speculazione finanziaria ritornavano nell’area della liceità e potevano espandersi senza ostacoli”.
Con la fine dell’ancoraggio del dollaro all’oro si è diffuso il convincimento che la supremazia della valuta americana fosse terminata; ciò non è stato, perché – a parere di Arlacchi – sono mancate “alternative praticabili al predominio della moneta dello Zio Sam”. Esisterebbe ora, però, la possibilità di uscire dal dominio del dollaro, raccogliendo l’opportunità, offerta dal crescente potere economico “cinese/Est asiatico”, di disegnare un sistema di relazioni internazionali alternativo a quello sinora imposto dalla superpotenza americana, in considerazione del fatto che l’egemonia sino-asiatica sarebbe molto diversa da quella che ha caratterizzato l’Occidente negli ultimi cinquecento anni.
La Cina, secondo Arlacchi, si contraddistinguerebbe “per una cultura politica millenaria che diverge da quella occidentale ed è quasi diametralmente opposta a quella americana”. Al centro della diversità ci sarebbe “il non espansionismo territoriale, la svalutazione dello strumento militare e della guerra e il governo dei mercati da parte dell’autorità pubblica”. A questo retroterra culturale si ispirerebbe la moderna strategia di sicurezza della Cina, che non sarebbe né militarista né espansionista, bensì “centrata sulla cooperazione regionale e sulla regia statale dei processi di sviluppo economico e di integrazione sociale interna”.
I fattori che sono alla base del miracolo economico della Cina e dell’Asia intera – sostiene Arlacchi – formano un modello cui è stato dato il nome di “developmental State. Esso si fonda “sulla centralità dello Stato come regista a tutto campo dello sviluppo”; non si tratta di uno “Stato keynesiano”, che interviene a curare il fallimento del libero mercato, ma di un’”istituzione che guida direttamente i mercati e si sostituisce ad essi nell’offerta di lavoro, beni e capitali”. L’affermazione del “developmental State”, sempre secondo Arlacchi, non sarebbe avvenuto in contrapposizione al “modello dell’economia socialista”, bensì in “piena sintonia con esso”. Ciò varrebbe a rendere “improprio parlare dell’intero sistema socioeconomico della Cina come di un sistema capitalistico”, in quanto lo Stato, non essendo subordinato ad alcun interesse di classe e regolando direttamente il mercato, ha fatto del sistema economico cinese una vera economia sociale di mercato. Proprio per queste sue caratteristiche, il modello socioeconomico cinese si è affermato, non solo in Cina, ma si è propagato anche in india e nell’Asia dell’Est e si sta affermando in Paesi come il Brasile e la Russia.
Allora, cosa potrà accadere – si chiede Arlacchi – nel futuro più prossimo? La risposta è che “l’autunno finanziario dell’Occidente non avrà altra scelta che adattarsi all’ascesa del nuovo ciclo centrato sulla Cina e sull’Asia dell’Est”; l’ipotesi più sensata, conclude Arlacchi, è che l’Occidente, con in testa gli USA, accettino gradualmente “la presenza non più passiva del mondo extraeuropeo nelle istituzioni della governance globale”, ponendo così fine allo strapotere dei mercati finanziari occidentali che hanno sinora costituito una minaccia incontrollabile al benessere esistenziale dell’umanità.
Che dire dell’auspicio di Arlacchi? La necessità che l’attività speculativa dei mercati finanziari sia “addomesticata” non può essere oggetto di discussione; lo è invece l’idea che tale “addomesticamento” possa essere realizzato attraverso un “developmental State. Di tale forma di Stato, l’Occidente (l’Europa soprattutto) ha già sperimentato gli esiti negativi. La sua rinnovata adozione per combattere l’irrazionalità dei mercati finanziari significherebbe sostituire la “cerchia” che attualmente li controlla e li gestisce con una “cerchia” autoreferenziale degli Xi Jinping, dei Putin e dei Modi di turno, le cui decisioni, prese fuori da ogni forma di controllo democratico, all’interno del “developmental State” non sono meno minacciose, per l’intera umanità, di quelle assunte dai componenti la “cerchia” che controlla i liberi mercati finanziari. Fuori dalle istituzioni democratiche, il “developmental State” sa solo evocare “Mostri” capaci di suscitare un’insicurezza esistenziale ben peggiore dell’instabilità socioeconomica creata dall’attività speculativa del mercati finanziari.
Gianfranco Sabattini
http://www.avantionline.it/arlacchi-e-gli-esiti-negativi-della-finanziarizzazione-del-capitale/