Pino Arlacchi sul disgelo con gli Usa: “Road map sul nucleare seria e dettagliata”
di Barbara Ciolli
Un Paese “a metà strada tra autoritarismo e democrazia”, con una “spinta fortissima verso il cambiamento”. Per Pino Arlacchi, europarlamentare (Pd) tra il 1997 e il 2002 Sottosegretario generale delle Nazioni Unite e Direttore dell'ufficio dell'Onu a Vienna, è riduttivo sostenere che l'Iran si avvicini all'Occidente solo per avere uno sconto sull'embargo che strozza la sua economia interna. E lo è anche affermare che, come durante la Presidenza di Mohammad Khatami (1997-2005), i negoziati sul nucleare si limiteranno a un allentamento del braccio di ferro da ambo le parti, fino all'avvento del prossimo presidente ultraconservatore nell'Iran o di un repubblicano alla Casa Bianca.
Arlacchi conosce l'attuale Ministro degli Esteri iraniano Mohammad Javad Zarif, ex ambasciatore della Repubblica Islamica a Palazzo di Vetro. E, durante il suo incarico alle Nazioni Unite, si è trovato a gestire le trattative sul nucleare della stagione riformista di Khatami. Dieci anni dopo è convinto che, nei prossimi anni, lo scenario globale degli equilibri tra potenze possa realmente cambiare, se solo, nel suo ultimo mandato da Presidente degli Usa, Barack Obama troverà il coraggio di sganciarsi dal partito della guerra americana e dalla lobby israeliana.
“Già nel 2003, la proposta dell'Iran sul nucleare si basava un progetto molto serio e dettagliato. Le trattative avrebbero potuto andare in porto nel 2003, se non avesse prevalso l'intransigenza dell'Occidente. Basterebbe riprendere in mano quel dossier, per raggiungere un accordo storico, non solo per il Medio Oriente”, ci racconta l'europarlamentare, esperto di sicurezza globale in aree d'influenza iraniana come l'Afghanistan.
Protagonista dell'inatteso disgelo è il nuovo Presidente iraniano Hassan Rohani, famoso all'estero per essere stato il Capo delegazione sul nucleare durante l'era Khatami. Alla vigilia del voto in pochi si sarebbero aspettati la sua vittoria. Si prevedeva un'affluenza bassissima alle urne e l'elezione pilotata di un conservatore. Come valuta le presidenziali del 14 giugno 2013 e che idea si è fatto di Rohani?
L'Iran non si può definire democratico al cento per cento, è pacifico che la democrazia sia ancora imperfetta. Anche se i cittadini vanno a votare, le elezioni vengono manipolate alla sorgente, con la censura preventiva dei candidati. Ma non va neanche sottovalutata l'enorme spinta al cambiamento chiesta dagli iraniani: vorrebbero vivere in modo occidentale, il ceto medio in espansione chiede modernizzazione. Se potesse, l'80-90 per cento dei cittadini si sbarazzerebbe del Governo autoritario dei vecchi chierici. I riformisti intercettano questa enorme fetta di popolazione, con un consenso quasi plebiscitario. Ma restano pur sempre una corrente composta dai compagni di rivoluzione dell'Ayatollah Ruhollah Khomeini. Il neo Presidente Rohani è espressione di questa contraddizione: incarna la voglia di cambiamento del popolo, ma rappresenta anche i limiti della teocrazia iraniana.
Chi screma i candidati è il successore di Khomeini, la Guida suprema Ali Khamenei, massima autorità politica e religiosa del Paese. Nel 2005 fu Khamenei a mandare avanti l'ultraconservatore Mahmoud Ahmadinejad, bloccando la stagione di riforme di Khatami. Due mandati dopo, è stato di nuovo l'Ayatollah a invertire marcia, consentendo la corsa di Rohani alle presidenziali. Poi però ha definito la telefonata con Obama «inappropriata», tornando a difendere i Guardiani della rivoluzione (Pasdaran). Da che parte sta Khamenei?
Le contestazioni di Rohani al suo rientro dall'Assemblea generale dell'Onu negli Usa, confermano che, in Iran, c'è una minoranza che si oppone al dialogo con l'Occidente. Questa minoranza ha una rappresentanza in Parlamento e, in primo luogo, nell'apparato militare. Khamenei inoltre presiede il corpo dei Guardiani della Rivoluzione ed è, indubbiamente, un conservatore. Ma non è neanche tra i peggiori conservatori: ha permesso stagioni progressiste. E solo con il consenso della Guida Suprema, Rohani ha potuto far ripartire i negoziati sul nucleare, aprendo agli Usa. Alla fine della presidenza Ahmadinejad, questo processo era nelle mani di Khamenei, che dopo le elezioni ha sbloccato le trattative.
Molti analisti affermano che i negoziati per il nucleare sono una tattica dell'Iran per prendere tempo. Far riprendere fiato al Paese, allentando le sanzioni. Ma senza in realtà mai abbandonare i progetti militari.
Non sono d'accordo. Al contrario di Israele, l'Iran aderisce al Trattato di non proliferazione nucleare (Tnp) e la sua linea istituzionale è sempre stata quella del disarmo. L'Ayatollah Khamenei ha ribadito più volte che l'Islam è contro le armi atomiche. La sua è un'autorità morale, non può contraddirsi. Inoltre, se Teheran avesse davvero voluto costruirsi l'atomica, l'avrebbe già fatto dieci o 15 anni fa. Il Tnp è un trattato traballante, basato sul compromesso: non sono previste sanzioni per chi esce e le armi atomiche restano legali. Nel 2003 la Corea del Nord uscì dal Trattato di non proliferazione. Si è poi costruita la sua bomba nucleare nella piena legalità.
Davvero l'Iran punta solo a un nucleare civile? Allora perché si è arrivati a uno scontro così forte con gli Usa durante l'amministrazione di Ahmadinejad?
La responsabilità non è addebitabile solo alle provocazioni dell'ex Presidente iraniano. Nel 2003 una valutazione dell'Agenzia internazionale per l'Energia atomica (Aiea) dimostrò che Teheran aveva abbandonato i suoi progetti militari. Era il momento buono per agire, invece prevalsero il partito della destra americana e la lobby israeliana. Anche l'Unione europea si allineò con gli Usa. Una seconda occasione si è persa nel 2010, quando Turchia e Brasile accettarono di riciclare il nucleare iraniano. Washington all'inizio era d'accordo, poi fece dietrofront. Trasformare il Medio Oriente un'area demilitarizzata resta un piano inattuato, perché si usano due pesi e due misure: si concede a Israele mano libera sul nucleare militare e civile e, dall'altra parte, si nega ai Paesi islamici il loro diritto al nucleare civile. Si tengono presente i diritti di Israele, ma non quelli degli altri. L'interna popolazione musulmana della regione li reclama.
L'Amministrazione Usa però ha riconosciuto a Teheran il diritto al nucleare civile: su questa base sono ripartite le trattative. Gli ultimi quattro anni alla Casa Bianca di Obama resteranno un periodo di armistizio temporaneo con l'Iran oppure, dopo la telefonata con Rohani, partirà un processo che rivoluzionerà gli assetti geopolitici mondiali?
Sono ottimista. Sostanzialmente, il pacchetto odierno di Zarif è quello della presidenza Khatami. Se Obama lo vorrà, nel suo ultimo mandato potrà permettersi una politica estera di netto cambiamento con il passato. La destra americana è finita in un vicolo cieco. Né gli Stati Uniti né l'Ayatollah Khamenei desiderano che esploda una guerra nell'area. Lo dimostrano anche i negoziati per la Siria: arrivato a un passo dall'attacco, Washington si è accordato con la Russia. Gli americani vanno sempre più verso una politica estera di risoluzione politica e diplomatica dei conflitti, dopo anni di interventi militari disastrosi.
Mantenere aperto un canale di dialogo con l'Iran, per Washington sarà centrale anche per stabilizzare l'Iraq e l'Afghanistan, dopo due guerre inutili. I due nemici giurati hanno molto di cui parlare insieme.
Combattere contro l'asse del male serviva a giustificare il budget della Difesa americana, sproporzionato per le minacce reali contro gli Stati Uniti. Le guerre fatte per l'industria degli armamenti e della sicurezza non si sono solo rivelate inefficaci: anzi hanno aggravato la situazione, accendendo conflitti prima inesistenti nella regione. L'Afghanistan è un Paese in macerie, il più povero al mondo, scosso da continui attacchi armati. L'Iraq è allo sbando, con 400 persone al mese perdono la vita negli attentati kamikaze. Anche in Libia, dopo i bombardamenti alleati, crescono il caos e gli estremismi. Così non si può più andare avanti.