Mi chiamo Antonino Calderone

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Il caffè della domenica
 «MI CHIAMO Antonino Calderone, ho cinquantasei anni e ho parecchie cose da dire sulla mafia»
La Nazione, 7 febbraio 2010

di Sergio Colomba Roma

 «MI CHIAMO Antonino Calderone, ho cinquantasei anni e ho parecchie cose da dire sulla mafia». Pino Caruso, seduto in palcoscenico davanti a un registratore, inizia a parlare con voce bassa. Il tono dimesso, velato da una discrezione che lo rende quasi distaccato e assente, stride con le cose terribili che sta per raccontare. Comincia così la confessione del boss un tempo potente, controllore degli affari della mafia catanese: quello che nel settembre del 78, quando Nitto Santapaola gli fa uccidere l'amico Pippo Calderone che si era messo contro i corleonesi, si schiera a sua volta. La sua famiglia perde la guerra, il fratello Giuseppe viene ammazzato; lui scappa in Francia, dove apre una lavanderia. Viene scoperto e arrestato, fa qualche anno di carcere poi decide di collaborare entrando con la famiglia nel programma di protezione. Giovanni Falcone va in Francia a sentirlo, più volte: le sue clamorose rivelazioni portano a più di duecento arresti.

Il senso del delitto, del castigo e del pentimento dunque. «Autentico, sofferto», dice Pino Caruso che ora è sulla scena l'ex-mafioso, nel monologo tratto da Dacia Maraini dalle memorie del pentito: quelle raccolte nel libro Gli uomini del disonore di Pino Arlacchi. «Racconto un evento umano, soprattutto» continua l'attore. «Quello di chi è cosciente delle atrocità commesse. Un'anima in pena, certo, ma ritrovata. E restituita alla società civile». Mi chiamo Antonino Calderone debutta al Piccolo Eliseo di Roma domani l'altro, martedì 9 febbraio, con la regia dello stesso Caruso. Ma lei lo spettacolo l'ha già portato a Palermo, dove certo ha toccato un nervo scoperto. «Non è come farlo a Trento, ovviamente. E difatti l'accoglienza che ha ricevuto, il passaparola che portava sempre nuovi spettatori, l'entusiasmo di ogni sera sembravano quasi liberatori. Ma come siciliano tengo a dire che noi siamo stati vittime della mafia. Non autori, né ideologicamente complici. Eravamo impotenti, non conniventi: abbiamo subito». Ne parla al passato, come di qualcosa che non c'è più «E difatti è così: la mafia, intesa come entità organica, non esiste più. Ci sono frange, residui, perché il fenomeno totalmente non si estinguerà mai; ma con la fine degli anni Ottanta e i primi Novanta sono avvenute mutazioni politiche profonde. La mafia ha perso la protezione della politica: non era Andreotti che bisognava processare a quel punto, ma un intero sistema. Oggi non ci sono più i grandi strateghi di Cosa nostra, i padrini intelligenti. Sono restati quattro miserabili bastardi: da allora a oggi l'evoluzione è così evidente che non la si vuol vedere. E da palermitano le dico: nella mia città la mafia non ha più la forza che aveva prima. Non c'è più una struttura unitaria, non c'è mobilità». Crede davvero alla vittoria dello Stato? «Non è tanto per gli arresti ormai quasi quotidiani, che comunque sono un fatto. Ma prenda la Cupola, ormai decapitata da tempo. Comprendeva una commissione con sei rappresentanti delle province siciliane. Tutto secondo lo statuto steso da Pippo Calderone; quello sì era dominio del territorio. Adesso non ci sono più la condizioni storiche per operare in quel senso, anche se i dietrologi sostengono che la politica finge di combattere duramente la mafia per farsi meglio gli affari propri». Tornando allo spettacolo, che poi altro non è se non il racconto di un'esistenza tormentata: cosa ci rivela Calderone dentro a quel turbine di vendette familiari e di sangue che sembra una tragedia greca? «Di rivelazioni clamorose sulla mafia non ne fa. E cosa vuol rivelare? Noi siciliani sapevamo già tutto: nomi, cognomi, indirizzi. Sapevamo chi era Totò Riina e dove stava. Ogni cosa aveva un suo copione preciso, conosciuto. Magari c'era qualche scoppio di tempesta, qualche sorpresa: ma poi in Cassazione arrivava Carnevale. Che per noi non era una festività. E comunque, più che le implicazioni burocratico-mafiose, sono quelle umane che cerco di evidenziare sulla scena. Calderone è un mafioso senza talento, lo fa quasi controvoglia. A un certo punto dice: non mi andava di uccidere. Si rende conto? E' come un chirurgo che si rifiuta di operare». Eppure anche lui aveva subito il fascino dell'iniziazione a Cosa Nostra. Pare che a un certo punto lo abbia sconvolto l'eccidio di tre bambini che erano stati testimoni involontari di un crimine. «Pensava all'inizio come molti che essere mafioso gli avrebbe dato potere e ricchezza. Alla legge ti puoi sottrarre, al costume e alla cultura in cui vivi, no. Da qui bisogna ricominciare: da una moralità che si faccia cultura e costume». Cosa insegna Calderone all'attuale dibattito sui pentiti? «La mafia conosce due fasi. Quella dell'omertà: chi parla muore. Dall'omertà si passa alla loquacità. Quando lo Stato diventa più forte, la mafia cambia stile appunto dall'omertà alla loquacità. Allora bisogna stare attenti: c'è chi rivela cose vere e chi mette i nomi falsi tra quelli autentici perché tutto sembri ancor più vero. Ma non credo a una regia unica che muove i pentiti. Quanto a Calderone, nel suo racconto ci saranno anche reticenze, deformazioni, aggiustamenti. Ma il tono è sincero, lo si capisce dal tono delle verità che racconta. E tutto, alla fine, contribuisce alla formazione di un giudizio obiettivo sulla mafia». Mario Puzo, i Sopranos, la Piovra, i Bravi ragazzi di Scorsese. Cinema e televisione hanno fatto la loro parte nel raccontarci la mafia, magari con troppo colore a volte. E il teatro? «Deve parlare di più del presente. Di film mi è piaciuto molto I cento passi. Ma ha fatto caso? I film sulla mafia sono tutti retrodatati, parlano al passato, non come cronache di una realtà. E proprio questo mi auguro: che un giorno il cinema possa trattare la mafia come quello americano fa con i western. Comunque i mafiosi non hanno troppa paura di come li si rappresenta. Anzi, di solito ne sono lusingati. Ricordo Vito Ciancimino: in una fiction televisiva avevo inserito una gag sul caffè, ricordando le tazzine mortali di Pisciotta all'Ucciardone, e di Sindona. Così, ordinavo un caffè Ciancimino. Bene: quando don Vito veniva al Bagaglino, mi chiedeva ogni volta quella gag, e rideva a crepapelle. Del resto lui era così: se un telegiornale parlando di mafia non lo nominava, si offendeva come un attore trascurato dai critici».

 

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