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La mia infanzia in Calabria

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Prefazione al volume di Aldo Alessio, Cento anni di storia marinara della Società dei Lavoratori del Mare di Gioia Tauro Marina

di Pino Arlacchi, Roma, 2 mar. 2009

Il lavoro di Aldo Alessio è una ricostruzione etnografica della vita della Società dei Lavoratori del Mare di Gioia Tauro marina, sullo sfondo delle opere e dei giorni degli abitanti di Gioia nell’ ultimo secolo. E’ un’opera ricca di documenti, testimonianze e ricordi che è giusto fissare in un quadro d’insieme prima che i suoi protagonisti scompaiano. Ma non è un semplice Amarcord.

E’ una riflessione attenta, intelligente, e sicura nel suo seguire un tracciato, nel suo obbedire ad un preciso comandamento interno. All’ idea, cioè, che l’ umana avventura dei lavoratori del mare di un lembo di territorio mediterraneo meriti di essere messa a fuoco. Perché sta al centro di un discorso fondamentale. Il discorso della dignità del lavoro, dell’ ingegno sagace e razionale di una comunità che ha accettato le sfide più moderne del tempo, e le ha sapute combattere con ferma coerenza. Talvolta vincendo e talvolta perdendo, ma con lo sguardo sempre rivolto in avanti.

Ho trascorso l’infanzia, negli Anni 50, giocando e sognando all’ombra dei velieri tirati in secco sulla spiaggia della Marina di Gioia Tauro. L’Assunta, il San Ciro, l’Allodoletta. Testimonianze di una gloria passata, malinconici eredi di un mondo perduto, e di un tempo che non sarebbe tornato, a dispetto dei racconti dei vecchi marinai e delle fantasie di noialtri bambini della Marina. Ci nascondevamo all’ interno dei bastimenti ed immaginavamo di scivolare di nuovo nel Tirreno, verso nuovi viaggi e nuove scoperte, finchè non arrivava qualcuno dei vigili proprietari a mandarci via, timorosi dei danni che monelli irriguardosi potevano infliggere alla loro amata creatura pronta a riprendere il mare in qualunque momento.

La fortuna sembrava avere da tempo voltato le spalle a Gioia Tauro. La città aveva seguito l’infelice parabola del Mezzogiorno dopo l unificazione del paese. Da centro di commerci tra i più intensi dell’ Italia del Sud, e da luogo di una imprenditorialità popolare, diffusa, vivace e coraggiosa, affollata delle storie e dei personaggi che Aldo Alessio scolpisce in questo volume, Gioia Tauro era lentamente, inesorabilmente declinata per quasi un secolo.

Cento anni di solitudine e di sconfitta che avevano marchiato il carattere del quartiere nel quale Aldo ed io siamo nati, la Marina, rendendolo l’ombra di ciò che era stato. I marinai vigorosi, caparbi, positivi dell’ epoca dell’abbondanza - gente che era stata capace di compiere la quasi incredibile impresa di creare uno dei maggiori scali marittimi meridionali lungo una costa dritta come un fuso, priva di insenature, porti e approdi naturali o artificiali di qualsiasi genere – erano diventati le figure chiuse, altere e taciturne che incontravo da piccolo sulla spiaggia di fronte a casa mia. Gente come il mio pro-zio, il capitano in disarmo Peppino Patamia. Vestito di tutto punto, con un cappello coloniale sulla testa, dalla cima dell’inutile pontile di attracco regalato dal governo quando tutto era finito e non serviva più a nessuno, il capitano passava le mattinate seduto su uno sgabello pieghevole ad osservare un punto indefinito del mare.

Chi legge questo volume e non è nato su una costa mediterranea, deve sapere che le storie raccontate da Aldo si svolgono in uno spazio fisico del tutto eccezionale. Quella parte del Tirreno meridionale compreso tra lo Stretto di Messina, le isole Eolie, capo Vaticano e la costa calabra è un colossale deposito di suggestioni e di miti che da millenni stimolano l’ immaginazione dei narratori e dei suoi abitanti. Il Tirreno è un mare difficile, complesso, pluridimensionale. Non è lo Jonio sereno e sfuggente, “la distesa delle acque lucenti” di Omero sulle quali la luce rimbalza, si sfrange e rimanda a confini lontani ma non angoscianti. Il Tirreno è un mini-oceano che assorbe la luce invece di rifletterla. E’ un mare cupo, profondo,inquieto anche quando è calmo, pieno di misteri, leggende, simboli, stranezze umane e naturali che nella sua estremità inferiore si sfrenano come dentro una allegoria maestosa quanto indecifrabile.

Chi ha tentato di inoltrarsi in questa allegoria con un temerario progetto esplorativo durato una vita intera è Stefano D’Arrigo, l’autore di Horcynus Orca, un romanzo oggi quasi dimenticato, pubblicato nel 1975. Horcynus è un capolavoro della letteratura universale, un libro-mondo che regge il confronto con l’Ulisse di Joyce e che descrive lo stesso territorio e gli stessi personaggi di questo volume. Otto giorni della vita di ‘Ndria Cambria, un marinaio che potrebbe essere un iscritto della società dei Lavoratori del Mare di Gioia Tauro, si trasformano in un epos grandioso e tragico, dove il mare, la morte, l’amore, la guerra coesistono in una totalità smarrita e priva di senso.

Fino a qualche decennio fa, la Marina di Gioia ospitava una colonia di pescatori che provenivano dal “paese delle femmine” di D’Arrigo, cioè Bagnara Calabra: un luogo enigmatico, perché parte integrante della Calabria patriarcale che si trovava a contenere una comunità interamente matriarcale. A Bagnara, infatti, comandavano le donne, le “femminote” di D’Arrigo, che comandavano pure nella loro filiale della Marina di Gioia, cioè nell’ altra metà del quartiere dei marinai di cui si parla in questo libro. Ed è tra questi pescatori venuti da Bagnara che sono nato e vissuto fino a 18 anni, allevato da balie bagnarote con gli occhi di piratesse.

Nessuno era in grado di affermare da dove provenisse l’impronta matriarcale dei bagnaroti. Diventato adulto e sociologo, ho trovato una prima risposta nell’ antropologia sociale, che attribuisce alle donne delle comunità di pescatori di tutto il pianeta un ruolo forte nei rapporti familiari. Nonché una scarsa propensione all’ uso della violenza fisica ed una notevole libertà sessuale.

Oggi penso che questa è certo una parte importante della spiegazione, e ricordo il mio stupore di studente di sociologia nel constatare il paradosso provocatorio di uno dei centri più macho e violenti della Calabria (Gioia Tauro è anche la capitale della ‘ndrangheta) dove un quarto dei suoi abitanti, la metà del suo quartiere più popoloso, invece di fare la guerra facevano quasi letteralmente l’amore, perché leggendaria era la tendenza poliandrica delle bagnarote. Donne passionali, tragediatore, dal piglio dispotico e sfacciato con cui manifestavano il loro ascendente sull’ uomo, svelte di mano e talvolta, per difendersi o vendicarsi, anche di coltello. Ma rifuggenti dalla violenza estrema, dall’arma da fuoco, prive dell’ aggressività letale delle loro controparti maschili e mafiose.

Ma sono anche attratto, oggi, dal problema delle origini più lontane di queste singolarità. Bagnara e la Marina di Gioia si trovano vicine al punto esatto in cui Ulisse affrontò la seduzione delle sirene. Erano queste le antenate già pericolose delle femminote gioiesi, le matriarche contrabbandiere di sale che sembrano statue che camminano e che traghettano il protagonista di Horcynus Orca dalla Calabria alla Sicilia? Oppure i profili vagamente orientali, quasi indiani, dei volti bagnaroti rimandavano ad una matrice asiatica, forse indoeuropea, ancora più arcaica della colonizzazione greca dell’ ottavo secolo ? E la violenza di derivazione magnogreca del mafioso gioiese non deve nulla alla sopraffazione da parte degli invasori ellenici di comunità costiere preesistenti, magari basate su ordinamenti alternativi più pacifici e per questo soccombenti?

I guai di Gioia Tauro sono durati fino agli Anni 70 del secolo scorso. Da allora, con la realizzazione - poco più a Nord del luogo in cui Oreste trovò sollievo dalla persecuzione delle Furie - del più grande porto commerciale italiano è iniziato un nuovo ciclo. Ma le incognite sono molte, e Aldo Alessio non le nasconde. E’ stato un grande sindaco della città, ed è un uomo tenace, battagliero, come i marinai suoi antenati e come i sodali della Società dei Lavoratori del Mare. Ad Maiora.

 

 

 
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