Università e intelligence

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Un rapporto da ricostruire

Presentazione del volume di Mario Caligiuri (a cura di), Intelligence e 'ndrangheta, Rubettino 2009

La collaborazione tra il mondo delle scienze sociali e l’ intelligence ufficiale ha già dimostrato la sua fecondità in alcune occasioni, ma assai poco in Europa e mai in Italia. Solo negli Stati Uniti si è formata un’ esile tradizione di scambi tra i due ambienti, iniziata durante la seconda guerra mondiale e via via indebolitasi fino all’ 11 settembre 2001.

Da allora è iniziata una ripresa, con risultati ancora molto incerti. In ogni caso, e’ da una riflessione sull’ esperienza americana che occorre prendere le mosse se si vuole ripensare il rapporto tra la ricerca universitaria da un lato e l’ azione dei servizi di sicurezza e di informazione dall’ altro.

Dopo la sua entrata in guerra contro l’ Asse, il governo americano commissionò una serie di studi ad alcuni tra i maggiori sociologi ed antropologi del tempo.  Pochi oggi ricordano, o sanno, che alcuni classici delle scienze sociali contemporanee come Il crisantemo e la spada di Ruth Benedict hanno origini militari. Essi nacquero sulla base della necessità di capire psicologia e  comportamenti di popolazioni nemiche in tempo di guerra. E di agire in modo efficace per influenzarle nella direzione ritenuta “giusta”.

Nelle virgolette che abbiamo collocato attorno all’ aggettivo “giusto” sta tutto il dilemma dei rapporti tra la scienza e il potere costituito. Dilemma che si è posto, nello stesso periodo di tempo e con ben maggiore intensità, nel campo delle scienze naturali con gli scienziati del “Manhattan Project”, cioè con il team di cervelli indipendenti che progettarono e costruirono la prima bomba atomica.

I due esempi citati contengono i termini del problema delle relazioni tra università ed intelligence ufficiale. Innanzitutto, per affrontare i grandi temi della sicurezza occorre andare all’ esterno delle agenzie della difesa. Per quanto ben forniti di risorse, l’ esercito, la polizia ed i servizi di informazione non sono in grado di raggiungere quel livello di profondità analitica e di conseguente capacità previsionale che è tipico invece della ricerca universitaria.

La potenza dell’ intelletto umano, se lasciata libera di spaziare in lungo e in largo, è capace di cose grandiose. Uno dei ricordi più vivi che conservo della mia carriera scientifica è localizzato proprio nell’ Università della Calabria del 1974-75. Durante i suoi seminari al dipartimento di sociologia, il mio maestro Giovanni Arrighi aveva perfettamente delineato – con 15 anni di anticipo – natura, svolgimento e cause del crollo dei regimi socialisti dell’ Europa dell’ Est.

La riattivazione delle forze del mercato mondiale dopo la crisi degli anni ’70, secondo Arrighi, li avrebbe tolti dalla scena in poco tempo e senza spargimento di sangue. Si sarebbe poi materializzato un ventennio di prosperità e di crescita che si sarebbe concluso in una nuova crisi, ma questa volta dell’ Occidente, ed a tutto vantaggio della Cina. Siamo qui dentro ad un orizzonte predittivo così audace e così di lungo periodo (oltre 35 anni) da rasentare l’ insanità. Nessuno pensava allora alla Cina come un’ entità significativa della geo-politica globale, e niente faceva pensare ad una crisi terminale del sistema comunista. Ma il libero volo intellettuale del mio maestro aveva prefigurato esattamente ciò che poi è avvenuto.

La mente umana è in grado di dispiegare le sue potenzialità solo se è scevra da ogni condizionamento circa i suoi processi, e se riceve adeguate assicurazioni circa l’ uso dei suoi risultati. La ricerca scientifica scende a compromessi se condivide le finalità politiche dell’ impresa, ma se è contraria o ha dei dubbi essa non accetta di essere costretta. E se viene costretta, non approda a risultati utili.

Solo il settore privato ha adottato di recente la strategia di usare il pensiero “contrarian” per i suoi scopi, arruolando studiosi di orientamento critico o apertamente dissenziente dalle finalità dei committenti in un accordo di sfruttamento reciproco. Ma ciò funziona per ambiti di raggio limitato, non paragonabili alle macro-problematiche che affrontano gli Stati o gli organismi sovranazionali odierni.

E’ stato proprio l’ esito del “Manhattan Project” e degli studi socio-antropologici sul Giappone a segnare il destino dei rapporti tra Università e intelligence negli USA nel dopoguerra. Questi rapporti si sono consolidati nel campo delle scienze naturali ma si sono ridotti al minimo in quello delle scienze sociali.

Perché? Perché l’ uso della bomba atomica contro Hiroshima e Nagasaki dimostrò l’ immenso potere che la scienza apparentemente più astratta e disinteressata  - quella sui fondamenti della materia -  può porre nelle mani dei governi. Nello stesso tempo, però, l’ intelligence degli scienziati sociali sulla forza militare del Giappone nel 1945 dimostrava quanto inutile e crudele fosse l’ uso di un’ arma di annientamento totale contro un nemico già sconfitto.

L’ombra di Hiroshima continuò a pesare sulle coscienze dei ricercatori del progetto. Questi si spaccarono in seguito tra chi ritenne di proseguire le ricerche militari sull’ atomo e chi divenne avversario dell’ uso bellico dell’ energia nucleare. Ma gli scienziati sociali che avevano contribuito all’ invasione del Giappone furono quasi unanimi nell’ interrompere la collaborazione con il governo, senza farsi impressionare neppure dalla costituzione pacifista dettata dai “generali illuminati” che componevano il governo di occupazione del Giappone stesso.

Fu solo alcuni decenni dopo, nel corso della guerra fredda, che il dilemma si ripropose. Su impulso del governo e dei servizi di sicurezza, vari politologi americani si dedicarono agli studi sull’ Unione Sovietica. I risultati delle loro ricerche influirono notevolmente sulle politiche del Dipartimento di Stato. Il rispetto dei confini delle sfere di influenza e la non-invasione di alcun paese legato all’ URSS, per esempio, furono due costanti della politica estera americana tra il 1947 e il 1989 molto influenzate dall’ intelligence universitario. Le ricerche più prestigiose svolte in quel tempo elevarono a dogma la dimensione “fredda” della guerra, e cioè il suo svolgersi sul terreno immateriale della propaganda, della diplomazia, dello spionaggio  e della ricerca dell’ egemonia culturale a scapito del confronto militare.

Nello stesso tempo, i maggiori sinologi delle università suggerivano una politica di apertura verso la Cina, ed i loro studi molto contribuirono alla storica svolta effettuata dal Presidente Nixon con il suo viaggio in Cina del 1972. La svolta  non fu da poco: essa rovesciò la precedente posizione degli Stati Uniti verso il governo comunista, inaugurando un epoca di coesistenza pacifica tra le due potenze che dura tuttora.

Il punctum dolens più rilevante per il nostro discorso arrivò nel 1989, con il collasso dell’ Unione Sovietica, e con esso della credibilità delle analisi e delle prescrizioni della CIA. Il budget del più famoso servizio di intelligence aveva raggiunto i 20 miliardi di dollari all’ anno, ma nessuno dei suoi ben retribuiti analisti era stato capace di prefigurare quello che varie altre menti ritenevano imminente, soprattutto dopo l’ avvento di Gorbachev nel 1985.

Il regime comunista russo era crollato al termine di un processo le cui manifestazioni erano state ben colte dagli studiosi delle università. I ricercatori della CIA si erano intestarditi nell’ ingigantire la minaccia degli armamenti sovietici, ed avevano in questo modo giustificato il grande riarmo reaganiano degli anni ’80.

Eppure solo tre anni prima del crollo dell’ Unione Sovietica uno studioso indipendente, Tom Gervasi, aveva pubblicato un volume di 545 pagine dal titolo molto eloquente: il mito della supremazia militare sovietica. Si trattava di una documentata monografia, basata su fonti pubbliche, nella quale si demoliva la premessa principale della politica americana di riarmo. Gervasi dimostrava come  - settore per settore, sistema d’arma per sistema d’arma- la superiorità USA e NATO sulla Russia fosse schiacciante.

Il predominio militare dell’ Unione Sovietica sugli Stati Uniti e l’ Occidente, in realtà, non è mai esistito. Già nel 1982 erano disponibili studi come quello di Matthew Evangelista – pubblicato sulla rivista International Security -  che dimostravano come l’ esercito sovietico  non sia mai stato nelle condizioni di costituire un pericolo letale per la sicurezza dell’ Europa Occidentale,  e come la stessa guerra fredda fosse stata lanciata nella consapevolezza che l’ Unione Sovietica non costituiva un pericolo mortale.

Secondo un documento dell’ intelligence militare americano del novembre 1945, la Russia avrebbe impiegato almeno 15 anni per riacquistare la forza necessaria per porre una seria minaccia all’ Occidente. In alcune pubblicazioni sull’ Armata rossa si poteva trovare l’ interessante notizia che la logistica dell’ Armata medesima nel 1950 era ancora affidata per il 50% alla trazione animale, ed i cavalli continuarono a venire usati nella logistica militare russa fino al 1954-55. Questi dati, e molti altri dello stesso tenore, sono stati in possesso dell’ intelligence governativo USA per l’ intero quarantacinquennio della guerra fredda. Ma non sono mai stati adoperati né fatti valere in alcuna sede. Perché?

Perché avrebbero smontato i grandi giochi e i grandi interessi che ruotano intorno alla spesa militare ed alla costruzione delle minacce. Solo la causa della pace e della distensione internazionale se ne sarebbe giovata. Ma quanto conta la causa della pace di fronte al pacco di commesse da 300-400 miliardi di dollari all’ anno che foraggia il partito della paura?

Lo stesso serio problema di affidabilità dell’ intelligence si è riproposto in questi anni con la questione delle armi di distruzione di massa possedute dell ‘Irak e dall’ Iran.  Ed anche dopo il plateale fallimento dell’ intelligence di stato nel caso dell’ invasione dell’ Irak non si è verificato altro che qualche pallida autocritica da parte dei vertici del medesimo, e qualche timida presa di distanza dal potere politico.

Solo il ritorno in primo piano dell’ analisi libera da condizionamenti politici, mediatici ed economici ci può risparmiare paure infondate e spese senza senso. Solo l’ intelligence indipendente dell’ università è in grado di offrire valutazioni credibili sull’ impatto effettivo e sulla effettiva letalità del terrorismo islamico, chimico, batteriologico ed informatico. Nonché sulla reale pericolosità delle altre “minacce” che vengono agitate nei media dai profeti di sventure che troppo spesso non accadono.

E’ importante riflettere oggi sul significato dei rapporti tra università ed intelligence, anche per non ripetere gli errori commessi in altri contesti. Molta ricerca sociale si è orientata verso l’ irrilevante, l’evanescente e l’ eccentrico a causa della frustrazione generata dai suoi passati rapporti con il potere politico. E l’ intelligence ufficiale continua a commettere molti sbagli quando si trova a maneggiare argomenti culturalmente, geograficamente e linguisticamente  molto lontani dalla sua portata e dai suoi mezzi. Il ponte tra università ed intelligence è più necessario che mai in tempi di  lotta al terrorismo e alla criminalità organizzata. Argomenti sui quali la conoscenza razionale, la fredda analisi delle cose, rischia ogni giorno di essere sommersa dalle esigenze di propaganda politica o dalle semplificazioni ed esagerazioni dei media.

E’ opinione di chi scrive che le risorse dell’intelligence ufficiale non siano sufficienti a produrre la conoscenza necessaria a combattere con efficacia le nuove minacce alla sicurezza umana.  Gli errori dell’ intelligence si pagano cari, ed i nemici da affrontare sono molto cambiati rispetto a pochi decenni fa. Non di rado dalla parte opposta si trovano ingegni agguerriti, provenienti (come Bin Laden ed i suoi) dalle fila dell’ intelligence medesimo, capaci di maneggiare le armi della politica, della propaganda e perfino dell’ analisi con una maestria sconosciuta ai terroristi di una generazione addietro: basta scorrere il testo originale di un comunicato di Bin Laden, e confrontarlo con i rozzi proclami delle Brigate Rosse dei primi anni ’70, per rendersi conto di quanto la sfida sia difficile. La “marcia in più” della ricerca disinteressata, in grado di cogliere verità magari sgradevoli nell’ immediato ma suscettibili di tramutarsi in buone guide per il futuro, è indispensabile se si vuole garantire la sicurezza di tutti.

Pino Arlacchi

Roma, 22 febbraio 2009

 
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