Il Fatto Quotidiano, 23 Novembre 2019
Bolivia - Il colpo di Stato favorito dagli Usa è potuto riuscire per la scarsa coesione del governo
È appena avvenuto in Bolivia un colpo di stato che ha messo temporaneamente da parte un presidente molto popolare, che lungo 13 anni di governo ha guidato la fuoriuscita del paese dalla marginalità politica e dalla povertà. I resoconti e le analisi correnti evitano di citare la ragione principale del golpe contro Evo Morales: il suo esempio di buongoverno socialista che ha fatto della Bolivia la maggiore storia di successo dell’ America del Sud. Un esempio che doveva essere soppresso ad ogni costo. Da chi? Dal solito 1% che tenta di tirare le fila del pianeta dagli Stati Uniti. Sotto Morales il Pil della Bolivia è quadruplicato, il salario minimo è triplicato, la povertà ridotta a meno del 16%, l’analfabetismo eliminato, l’inflazione e il tasso di cambio sono rimasti stabili, e la maggioranza della popolazione india – i due terzi di quella totale – ha avuto accesso per la prima volta in 500 anni a istruzione, sanità, pensioni, e protezione sociale a largo raggio.
Tutto questo durante il boom dei prezzi delle materie prime durato fino al 2014, ed anche dopo, perché il governo boliviano, a differenza degli altri esecutivi del continente, è riuscito a sconfiggere la “maledizione delle materie prime” (il petrolio del Venezuela, il rame del Cile, il litio della stessa Bolivia..) nazionalizzando le industrie di base e convogliando massicci investimenti al di fuori del settore minerario e degli idrocarburi. Ne è risultata un’economia a guida statale, diversificata, robusta e ad alta crescita. Un modello “socialista” avanzato che non poteva essere più tollerato dal risvolto violento del capitalismo neoliberal. Se la Bolivia di Morales era così forte, viene allora da chiedersi, perché è caduta così rapidamente sotto l’ urto della minaccia militare, delle manifestazioni di piazza e del diniego di legittimazione da parte degli Usa. Perché ciò che non ha funzionato in Venezuela ha avuto successo in Bolivia?
La risposta sta in due differenze cruciali, che corrispondono ad altrettanti limiti del modello socialista boliviano. Morales ha creduto, in primo luogo, che i benefici delle sue politiche sociali parlassero da soli, assicurandogli un primato elettorale permanente presso la grande maggioranza dei cittadini, senza tenere nel dovuto conto la necessità di strutturare e radicare in profondità i suoi consensi. Il suo partito, il Mas, è rimasto un arcipelago rissoso e composito di fazioni, abituate a scendere in piazza al minimo segno di disagio anche contro il proprio stesso governo. Nulla di paragonabile alla mobilitazione capillare e all’autogestione ben organizzata di risorse comuni (dai beni alimentari all’educazione musicale) dei colectivos venezuelani, capaci di far scendere in piazza in poche ore centinaia di migliaia di persone a sostegno di Maduro.
In secondo luogo, il governo Morales non ha curato una riforma della polizia e delle forze armate abbastanza profonda da democratizzarle e renderle parte del progetto socialista. Cultura, addestramento e tattiche di intervento di soldati e ufficiali sono rimasti quelli dei tempi bui delle dittature e dei governi corrotti del passato. Ho conosciuto Morales durante il mio mandato Onu, alla fine degli anni Novanta, quando l’establishment politico e militare lo riteneva un pericoloso capo dei cocaleros di Cochabamba. Diventato presidente ha preferito glissare in tema di organizzazione della sicurezza nazionale. La nuova costituzione boliviana del 2009 non dice nulla sul tema e nel momento più cruciale questa omissione è costata molto cara. Nulla di simile alla situazione venezuelana, dove esercito e polizia sono immersi nella popolazione chavista e sono un architrave del sostegno a Maduro. Non è facile trasformare entità di questo tipo in una forza golpista e antipopolare in un paese la cui costituzione proibisce alla guardia nazionale di detenere armi da fuoco in servizi di ordine pubblico. Divieto fatto osservare talvolta fino all’ assurdo.
Detto questo, cosa può succedere adesso? È evidente che, per quanto poco strutturata, la base di consenso a Morales non svanirà tanto facilmente. Anzi, è probabile che la durezza della repressione golpista, i tentativi di smantellare le protezioni sociali dell’era Morales e la crisi economica conseguente contribuiranno tutti ad una sua possibile nuova vittoria alle elezioni di gennaio 2020. Ma vedremo davvero queste elezioni? La risposta sta più a Washington che a La Paz.
https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2019/11/23/morales-ha-scontato-lassenza-delle-forze-armate-e-del-partito/5576524/
Avanti online, 15 Novembre 2019
Le continue crisi del capitalismo occidentale hanno compromesso la prosperità e il benessere dei cittadini, aumentato le disuguaglianze, ridotto la crescita, abbassato i salari e “generato una crisi di aspettative e di fiducia nel futuro che ha capovolto l’ottimismo dei decenni passati”. Il capitalismo, a parere di Pino Arlacchi, configura oggi la “più grande minaccia alla sicurezza e al benessere di tutti noi”; è questa la tesi che Arlacchi sostiene nel suo libro recente, “I padroni della finanza mondiale. Lo strapotere che ci minaccia e i contromovimenti che lo combattono”.
Non si tratta di una minaccia militare, ma non per questo meno reale, considerando che il capitalismo finanziario, dilagante in gran parte del pianeta, e sorretto dall’ideologia neoliberista, produce effetti devastanti sulla capacità di coesione sociale dei Paesi nei quali esso si manifesta. Coloro che causano tali effetti formano una “cerchia” ristretta di potere che domina la scena economica degli Stati Uniti e dell’Europa, determinandone l’orientamento in fatto di politica economica e di relazioni internazionali.
Tuttavia, per Arlacchi, non si tratta di una “cerchia” onnipotente, in quanto il succedersi continuo di crisi finanziarie ne ridimensiona periodicamente la forza e ne devasta le risorse, alimentando un contropotere col quale il mondo cerca di proteggersi dall’aggressività del capitale finanziario. Come sarà messo in evidenza, seguendo la narrazione di Arlacchi (condotta non senza forzature pregiudiziali di natura ideologica), l’aggressività ha avuto l’effetto di favorire lo sviluppo in parallelo di “un’intera sezione dell’economia e del sistema internazionale” estranea e potenzialmente alternativa al sistema di potere della “piovra finanziaria”.
A partire dagli anni Settanta del secolo scorso, “il capitalismo finanziario e l’ideologia neoliberista sua associata – osserva Arlacchi – sono divenuti i motori più potenti dell’insicurezza umana”; la propaganda neoliberale è riuscita a giustificare l’aggressività del capitale finanziario attraverso l’instaurazione di un “pensiero unico, basato sulla consacrazione feticista del mercato e del mercato finanziario come parte essenziale di esso”. L’inganno do questo “pensiero unico” è consistito nel fare accettare l’idea che non sia possibile risolvere i problemi creati dall’aggressività del capitale finanziario se non contando sulle capacità salvifiche dell’”intervento dei mercati”, ai quali, appunto, si deve l’insorgere di quei problemi.
Chi sono – si chiede Arlacchi – i componenti della “cerchia” di potere che gestisce il capitale finanziario? Sono i “Benksters” di Wall Street e della City di Londra, cioè i capi delle sette-otto maggiori banche d’affari americane ed europee, ricadenti sotto “la definizione rassicurante di ‘investitori istituzionali’: gestori dei fondi pensione e di investimento che tutto sono tranne che tutori delle istituzioni, e dei fondi che gli ignari risparmiatori affidano nelle loro mani”. Sono essi i “manovratori” degli spread e dei prestiti ai governi nazionali, “i ‘figli di Troika’ del FMI, della Commissione europea e della BCE” che, dopo lo scoppio della Grande recessione, “hanno massacrato la Grecia e l’Irlanda, messo in difficoltà la Spagna, l’Italia e il Portogallo, degradato il Regno Unito e fatto traballare nel 2010-2012 la stessa Unione Europea”.
La vicenda del capitale finanziario inizia ben prima degli anni Settanta del secolo scorso, per segnare un ciclo che dura tuttora; il suo punto di partenza risale alla Conferenza di Bretton Woods, che nel 1944 ha fissato l’insieme delle regole adottate, dopo la fine del secondo conflitto mondiale, per il governo delle relazioni commerciali e finanziarie internazionali dei principali Paesi industrializzati del mondo occidentale. Per capirne le implicazioni, occorre tener presente che le determinazioni assunte in occasione di tale Conferenza sono state in realtà il risultato della scelta tra i due progetti elaborati, per conto dei rispettivi governi, da due grandi protagonisti del lavori, sebbene i loro nomi non abbiano avuto la menzione che avrebbero meritato: l’inglese John Maynard Keynes, da un lato, e il sottosegretario al Tesoro USA, Harry Dextter White, dall’altro.
Il progetto di Keynes delineava un “sistema di compensazione multilaterale”, basato sulla creazione di una moneta universale, il “Bancor” (definito in termini di oro e concepito strumento di pagamento dei debiti internazionali), volto ad impedire il crearsi degli squilibri finanziari che, secondo il grande economista inglese, erano tra i motivi principali del conflitto. L’adozione di questa valuta avrebbe evitato la creazione di debiti e crediti tra gli Stati: la quantità di valuta derivante dalle vendite di un Paese non doveva essere accumulata, bensì spesa per l’acquisto di merci in altri Stati. Il “Bancor” sarebbe stato.
Alla proposta britannica, gli Stati Uniti hanno contrapposto un loro progetto di riforma del sistema monetario internazionale; secondo White, i problemi da fronteggiare, una volta terminato il conflitto mondiale, sarebbero stati quelli di prevenire il collasso del sistema del credito e dei cambi esteri, assicurare la restaurazione del commercio internazionale e far fronte all’enorme bisogno di capitali per la ripresa economica mondiale. A tal fine, il sottosegretario statunitense riteneva vitale una collaborazione internazionale, in campo monetario e bancario, garantita da due istituzioni: il “Fondo Monetario Internazionale” e la “Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo”. La prima avrebbe fornito gli strumenti necessari alla stabilizzazione dei tassi di cambio e rafforzato il sistema monetario internazionale; la seconda sarebbe stata invece dotata dei mezzi e del potere necessari per favorire la ricostruzione economica, facilitare la transizione da un’economia di guerra a una di pace e stimolare il commercio e la crescita della produttività internazionale. La necessità primaria per White era quindi quella di creare un “fondo monetario” alimentato dai conferimenti di ciascuno Stato membro, da utilizzare per consentire agli Stati in deficit di affrontare le loro obbligazioni internazionali. Una parte considerevole del conferimento di ogni Stato andava versata in oro; era prevista anche la creazione di una valuta internazionale, l’”Unitas”, con la quale sarebbero stato espressi i conti dei singoli Stati all’interno del Fondo. In questo modo, l’oro, secondo il progetto White, avrebbe assunto la funzione di “strumento unico di riserva internazionale”.
Entrambi i progetti sfioravano l’utopia; ma quello del governo americano, forte del prestigio che gli USA avevano acquisito concorrendo a sconfiggere il nazismo e dell’esperienza del New Deal (che era valso a sperimentare in anticipo le tesi keynesiane per il superamento degli effetti della Grande Depressione del 1929-1932), è riuscito a prevalere. Con esso, a parere di Arlacchi, Roosevelt voleva affermare la possibilità di inaugurare una forma di governo mondiale con un duplice scopo: da un lato, garantire sicurezza per tutti gli Stati, che sarebbe valsa a proteggere “il genere umano non solo dagli esiti dalle guerre, ma anche da quelli del collasso finanziario che le aveva generate”; dall’altro, chiarire che “l’architrave della sicurezza, nel nuovo ordine mondiale, sarebbe stato sì il potere dell’America, ma esso sarebbe stato esercitato attraverso un’istituzione internazionale [l’ONU] e con il consenso di tutti i Paesi della terra, grandi e piccoli, posti formalmente sullo stesso piano”.
Il progetto rooseveltiano, però, non è stato attuato secondo gli intenti originari; dopo la morte del Presidente americano, prima ancora che la guerra finisse, c’è stato l’avvento al potere di Harry Truman, il quale ha ridimensionato, senza cancellarlo, il progetto originario, soprattutto per i “venti di Guerra fredda” che, afferma Arlacchi, sono iniziati a spirare tra Washington e Mosca. La realizzazione dell’utopia rooseveltiana si è concretizzata in un nuovo ordine internazionale, sotto il quale l’Occidente è vissuto sino ai nostri giorni, generando ed attuando quelle politiche che hanno condotto il capitalismo occidentale a coinvolgere, dopo il 1945, in un’area economica internazionale di libero scambio, l’insieme dei Paesi ad economia di mercato e retti da regimi democratici, legati tra loro da vincoli militari, politici ed economici sempre più solidi.
Il progetto rooseveltiano, attraverso gli accordi di Bretton Woods, si è così tradotto in un assetto di governo dei mercati finanziari fondato sull’egemonia del dollaro, un assetto che ha consentito, nei trent’anni successivi alla fine del secondo conflitto mondiale, di creare le condizioni di stabilità finanziaria che hanno assicurato nei Paesi che facevano parte del nuovo ordine internazionale di realizzare “la crescita economica più intensa, prolungata ed equilibrata della storia occidentale.
La presunzione della superpotenza americana di poter governare la liquidità mondiale, rifiutando a Bretton Woods la proposta di Keynes (cioè del rappresentante di un Paese e di un Occidente fortemente indebitati verso gli USA) che venisse creata una “stanza di compensazione” degli attivi e dei passivi della bilancia internazionale di parte corrente, ha manifestato i suoi limiti negli anni Settanta, non a causa della subordinazione della finanza alle esigenze di stabilità in funzione dello crescita economica, ma a causa del “gold dollar standard”, deciso alla Conferenza del 1944.
Il cedimento della potenza del dollaro è stata infatti determinato dal fatto che la crescente liquidità internazionale espressa in valuta statunitense aveva raggiunto, alla fine degli anni Sessanta, un punto oltre il quale l’ammontare del debito degli USA verso le altre banche centrali occidentali avrebbe oltrepassato il valore delle riserve auree detenute dal Tesoro americano. La fine dell’ancoraggio del dollaro all’oro ha comportato anche quella degli accordi di Bretton Woods; per cui, afferma Arlacchi, “i profitti generati dalla speculazione finanziaria ritornavano nell’area della liceità e potevano espandersi senza ostacoli”.
Con la fine dell’ancoraggio del dollaro all’oro si è diffuso il convincimento che la supremazia della valuta americana fosse terminata; ciò non è stato, perché – a parere di Arlacchi – sono mancate “alternative praticabili al predominio della moneta dello Zio Sam”. Esisterebbe ora, però, la possibilità di uscire dal dominio del dollaro, raccogliendo l’opportunità, offerta dal crescente potere economico “cinese/Est asiatico”, di disegnare un sistema di relazioni internazionali alternativo a quello sinora imposto dalla superpotenza americana, in considerazione del fatto che l’egemonia sino-asiatica sarebbe molto diversa da quella che ha caratterizzato l’Occidente negli ultimi cinquecento anni.
La Cina, secondo Arlacchi, si contraddistinguerebbe “per una cultura politica millenaria che diverge da quella occidentale ed è quasi diametralmente opposta a quella americana”. Al centro della diversità ci sarebbe “il non espansionismo territoriale, la svalutazione dello strumento militare e della guerra e il governo dei mercati da parte dell’autorità pubblica”. A questo retroterra culturale si ispirerebbe la moderna strategia di sicurezza della Cina, che non sarebbe né militarista né espansionista, bensì “centrata sulla cooperazione regionale e sulla regia statale dei processi di sviluppo economico e di integrazione sociale interna”.
I fattori che sono alla base del miracolo economico della Cina e dell’Asia intera – sostiene Arlacchi – formano un modello cui è stato dato il nome di “developmental State. Esso si fonda “sulla centralità dello Stato come regista a tutto campo dello sviluppo”; non si tratta di uno “Stato keynesiano”, che interviene a curare il fallimento del libero mercato, ma di un’”istituzione che guida direttamente i mercati e si sostituisce ad essi nell’offerta di lavoro, beni e capitali”. L’affermazione del “developmental State”, sempre secondo Arlacchi, non sarebbe avvenuto in contrapposizione al “modello dell’economia socialista”, bensì in “piena sintonia con esso”. Ciò varrebbe a rendere “improprio parlare dell’intero sistema socioeconomico della Cina come di un sistema capitalistico”, in quanto lo Stato, non essendo subordinato ad alcun interesse di classe e regolando direttamente il mercato, ha fatto del sistema economico cinese una vera economia sociale di mercato. Proprio per queste sue caratteristiche, il modello socioeconomico cinese si è affermato, non solo in Cina, ma si è propagato anche in india e nell’Asia dell’Est e si sta affermando in Paesi come il Brasile e la Russia.
Allora, cosa potrà accadere – si chiede Arlacchi – nel futuro più prossimo? La risposta è che “l’autunno finanziario dell’Occidente non avrà altra scelta che adattarsi all’ascesa del nuovo ciclo centrato sulla Cina e sull’Asia dell’Est”; l’ipotesi più sensata, conclude Arlacchi, è che l’Occidente, con in testa gli USA, accettino gradualmente “la presenza non più passiva del mondo extraeuropeo nelle istituzioni della governance globale”, ponendo così fine allo strapotere dei mercati finanziari occidentali che hanno sinora costituito una minaccia incontrollabile al benessere esistenziale dell’umanità.
Che dire dell’auspicio di Arlacchi? La necessità che l’attività speculativa dei mercati finanziari sia “addomesticata” non può essere oggetto di discussione; lo è invece l’idea che tale “addomesticamento” possa essere realizzato attraverso un “developmental State. Di tale forma di Stato, l’Occidente (l’Europa soprattutto) ha già sperimentato gli esiti negativi. La sua rinnovata adozione per combattere l’irrazionalità dei mercati finanziari significherebbe sostituire la “cerchia” che attualmente li controlla e li gestisce con una “cerchia” autoreferenziale degli Xi Jinping, dei Putin e dei Modi di turno, le cui decisioni, prese fuori da ogni forma di controllo democratico, all’interno del “developmental State” non sono meno minacciose, per l’intera umanità, di quelle assunte dai componenti la “cerchia” che controlla i liberi mercati finanziari. Fuori dalle istituzioni democratiche, il “developmental State” sa solo evocare “Mostri” capaci di suscitare un’insicurezza esistenziale ben peggiore dell’instabilità socioeconomica creata dall’attività speculativa del mercati finanziari.
Gianfranco Sabattini
http://www.avantionline.it/arlacchi-e-gli-esiti-negativi-della-finanziarizzazione-del-capitale/
Il Fatto Quotidiano, 29 Ottobre 2019
Una lite tra spacciatori di droga avvenuta a Roma e degenerata in omicidio aveva fatto partire in quarta, pochi giorni fa, l’isteria mediatica nazionale, finché il capo della Polizia e le indagini hanno fortunosamente stoppato l’inizio di un nuovo assist a Salvini.
L’episodio è però servito a Roberto Saviano e ai soliti radicali per rilanciare l’idea, ormai cinquantennale, che legalizzando le droghe leggere si risolverebbero in un sol colpo tre problemi: quello delle mafie, private della loro maggiore fonte di profitto, quello della violenza generata dallo spaccio e quello del consumo degli stupefacenti i quali, diventati leciti, perderebbero l’appeal del proibito. Questa idea è una proposta simil-intelligente perché si presenta bene, come un lineare ragionamento neoliberal, per poi soccombere di fronte ai fatti. E di fronte alle date, poiché riflette una situazione del mercato delle droghe che non esiste più, in Italia e nel mondo, da circa un quarto di secolo. È dalla metà degli anni 90, infatti, che l’azione antimafia italiana e mondiale ha determinato l’inizio del declino del business della droga e la fine degli oligopoli criminali che accumulavano grandi fortune. Ed è da prima di quella data che l’espansione del numero dei consumatori nei mercati più ricchi (Europa e Usa), soprattutto per le droghe pesanti, si è anch’essa esaurita. Ne è derivata una caduta verticale dei prezzi che ha ridotto del 70-80 per cento fatturato e profitti della droga: un chilo di eroina da strada costava 196 euro nel 1990, 56 nel 2006 e 50 oggi. E lo stesso vale, più o meno, per la coca.
All’epoca del mio primo viaggio negli Usa con Giovanni Falcone, nel 1982, un chilo di eroina venduta all’ingrosso da Cosa Nostra nel mercato di New York valeva l’equivalente odierno di 530 mila euro. Abbastanza da far arricchire l’establishment mafioso di Palermo. Quel chilo di eroina oggi costa tra i 15 e i 20 mila euro. Contemporaneamente, è partita in quegli anni la grande offensiva antimafia che ha finito col mettere fuori gioco – in Italia, nelle Americhe e nel Sud-est asiatico – tutti i maggiori cartelli della droga. Un onda lunga che è culminata nella Convenzione di Palermo del 2000 contro le mafie mondiali: il sogno di Falcone che mi onoro di avere realizzato come direttore del Programma antidroga dell’Onu. Di conseguenza, i rischi del traffico sono diventati proibitivi: gli archivi antidroga sono oggi gli unici davvero globali, i sequestri mondiali tolgono dal mercato i due terzi della coca prodotta e il 50 per cento dell’eroina.
La risposta della criminalità è stata duplice: da un lato si è ristrutturata in centinaia di piccoli cartelli, meno vulnerabili alle indagini, e ha molto ridotto l’uso della violenza. Dall’altro, ha aperto nuovi campi, meno redditizi ma a basso rischio, quali la contraffazione, le truffe informatiche, il contrabbando di risorse naturali e di specie protette, assieme alla ri-valorizzazione, nel caso italiano, del rapporto con la politica e la spesa pubblica corrotta delle amministrazioni, nonché delle estorsioni e dei monopoli dei mercati legali territoriali (la mafia imprenditrice).
A eccezione della ’ndrangheta, ancora attiva nel traffico della cocaina, la grande criminalità italiana ha seguito la parabola globale: i profitti della droga sono oggi meno del 20 per cento del suo fatturato totale, contro l’80 per cento di 40 anni fa. Legalizzazione o liberalizzazione non le darebbero perciò alcun colpo di grazia, ma la spingerebbero ulteriormente verso le attuali fonti di profitto. Cosa succederebbe ai consumi? Se i consumatori potessero disporre di un’offerta legale e controllata non diminuirebbe forse l’obbligo di rifornirsi dalla delinquenza? Certamente sì, se fosse possibile contenere, però, l’immenso incentivo all’aumento del numero dei consumatori. Questa obiezione, dopo ciò che è avvenuto negli Stati Uniti, è insuperabile. Non si disponeva fino a poco tempo fa di alcun esempio di legalizzazione o liberalizzazione su scala nazionale. Finché ci hanno pensato gli Usa a colmare la lacuna realizzando dal 2000 in poi una quasi totale decriminalizzazione della vendita e del consumo degli stupefacenti. Senza dichiararlo, e in stile neoliberal, affidando alle imprese private legali il compito di sostituire l’offerta mafiosa. Le grandi industrie farmaceutiche si sono messe a produrre e vendere una serie di farmaci antidolorifici a base oppiacea decine di volte più potenti dell’eroina in quanto a capacità di assuefazione. Con la complicità dei medici americani, e tramite lobbismo e corruzione, queste droghe legali hanno inondato il mercato facendo esplodere il numero dei tossicodipendenti, passati da meno di 1 a oltre 11 milioni, determinando una ecatombe annuale di morti per overdose, oltre 70 mila nel 2018 (10 volte il dato europeo), prima causa di morte sotto i 50 anni di età. Un minimo di aggiornamento su tutta la materia mi parrebbe quindi indispensabile prima di lanciare, qui da noi, slogan obsoleti.
https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2019/10/29/droga-legalizzare-e-solo-pericoloso/5537799/
Il Fatto Quotidiano, 28 Settembre 2019
Prodezze della guerra asimmetrica. Un po’ di droni, un po’ di missili e un po’ di imboscate delle milizie Houthi stanno mandando in rovina l’invasione dello Yemen da parte della terza potenza del pianeta, dopo Stati Uniti e Cina, per spesa militare. L’Arabia Saudita spende 68 miliardi di dollari all’anno – l’8,8 per cento del suo Pil, primato mondiale – per armare una forza che da quattro anni non è in grado di prevalere su una congerie di combattenti straccioni, privi di aviazione, carri armati e difese antiaeree.
Le truppe reali combattono con il solido appoggio logistico e di intelligence americano, e tutto ciò che sono riusciti a fare finora è una serie di schifose stragi di civili nonché generare una crisi umanitaria da fame, sete e malattie che si è portata via 80 mila vite e sta facendo indignare il mondo intero. Contemporaneamente, i droni e i missili di qualche giorno fa – il cui lancio è stato rivendicato dagli yemeniti – sono penetrati nello spazio aereo saudita facendosi beffa del sistema di difesa antimissile made in Usa Patriot e hanno distrutto il principale impianto petrolifero del Paese, dimezzandone la capacità produttiva e riducendo del 5 per cento l’offerta mondiale di petrolio.
L’ attacco ha scioccato la monarchia e Washington al punto che non sono stati in grado di articolare una risposta immediata contro i presunti autori, né di fornire una giustificazione decorosa di quanto accaduto. Ma l’insegnamento impartito da questi fatti è apparso subito molto chiaro: il Regno d’Arabia Saudita è incapace sia di attaccare sia di difendersi decentemente perché non è in grado di usare le armi che possiede e che ha acquistato a caro prezzo. E perché non è una vera nazione né uno Stato. È una pompa di benzina postmoderna (tirannia medievale più rendita finanziaria), e vulnerabilissima, che riesce a stare in piedi solo perché paga un enorme costo di protezione agli Stati Uniti, o meglio, all’élite plutocratico-militare di quel Paese.
Gli Usa non hanno più bisogno del petrolio saudita. La tecnologia fracking li ha resi indipendenti dalle importazioni di idrocarburi e ha mandato in soffitta la dottrina Carter secondo la quale gli Stati Uniti avrebbero il diritto di difendere anche con la forza il loro approvvigionamento energetico dal Medioriente. Ma il legame tra la casa di Saud e l’America che conta è rimasto. Si basa sulla fornitura di armamenti e sul riciclaggio della rendita estrattiva tramite Wall Street e petrodollaro, e non va sottovalutato: è stato proprio l’11 settembre 2001 a dimostrarne la forza. 15 dei 19 attentatori erano sauditi, ma gli affari della famiglia Bush con la dinastia dei Saud hanno contribuito a deviare prima contro l’Afghanistan e poi contro l’Iraq la vendetta americana: Dollar First! Il tema è stato riassunto da Trump in campagna elettorale quando ha dichiarato che l’Arabia Saudita non è un alleato, ma spende centinaia di miliardi di dollari in armamenti americani. Perciò “è la nostra vacca da latte, e quando non sarà più capace di produrne, la macelleremo”. Il problema ora è che, invadendo lo Yemen e facendosi fare a pezzi senza reagire metà della sua industria petrolifera la settimana scorsa, la vacca si è macellata da sola. A beneficio di chi? Non certo degli Stati Uniti, che non possono pensare di raddoppiare le vendite di armi a un cliente che ha già raggiunto i propri limiti di esborso. E che, non sapendole usare, deve essere protetto d’ora in poi con un impegno militare diretto.
Il maggiore beneficiario immediato della palese vulnerabilità saudita è senza dubbio l’Iran, che è sia uno Stato che una nazione, nonché la massima potenza regionale da un paio di migliaia di anni. Potenza non aggressiva, che non inizia una guerra da 500 anni e che ha intrapreso da poco un percorso di riavvicinamento all’Occidente interrotto dall’avvento di Trump. L’idea, coltivata dai sauditi negli ultimi decenni, di poter seriamente competere con l’Iran per la supremazia nel Golfo e nella regione, è andata adesso in frantumi. Per di più è evidente che una guerra tra Arabia Saudita e Iran durerebbe poche settimane, e anche l’abbandono dei Patriot e la corsa all’acquisto degli S-300 russi si scontrerebbe con gli stessi ostacoli.
La palla ora è tutta nel campo di Washington. Ma il beneficiario di più lungo periodo della débâcle saudita è la pace internazionale. La guerra tra Usa e Iran era già improbabile perché non favorita né dal Congresso né dal Pentagono né dallo stesso Trump. E neppure, ovviamente, dall’Iran e dagli europei, impegnati a mantenere il Trattato nucleare del 2015. E le guerre non scoppiano per caso. Occorre che almeno una delle due parti sia fortemente decisa a iniziarla. Si è aperto così uno spazio ulteriore per una soluzione non militare dello scontro tra Stati Uniti e Iran. Ed è paradossale che stiamo tutti ad aspettare, a questo punto, l’esito finale del confronto tra l’anima isolazionista e quella bullista di un presidente americano lontano 7mila chilometri dal Medioriente.
https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2019/09/28/la-fragilita-saudita-aiuta-la-pace/5483660/
Il Fatto Quotidiano, 26 Settembre 2019
Pino Arlacchi sulla pellicola che l’Italia ha candidato agli Oscar: “Mancano ‘inganno’ e ‘morte’ dentro i quali si muovevano le vite dei protagonisti”
Ho conosciuto e frequentato per quasi 15 anni Tommaso Buscetta e la sua famiglia. Ho pubblicato nel 1994 il racconto in prima persona della sua vita, e ho visto il film che Marco Bellocchio gli ha dedicato con un titolo un po’ curioso, Il traditore (ora candidato per l’Italia a entrare nella nomination degli Oscar): titolo che rimane al di sotto sia del personaggio che della storia raccontata. Tommaso Buscetta non è stato un semplice traditore, né un collaboratore di giustizia singolare perché non pentito. Ed è riduttivo presentarlo come un capomafia che si vendica della sua sconfitta facendo colpire dallo Stato i nemici che non può più raggiungere da solo. Buscetta è l’uomo d’onore che ha consentito a Giovanni Falcone e alla giustizia italiana di compiere un’impresa di portata epocale: la distruzione di Cosa Nostra.
La pellicola si concentra sui drammi personali di un personaggio shakespeariano, con la pelle e l’anima bruciate dallo sterminio di figli, fratelli, cognati, nipoti e amici, e dalla degenerazione di un mondo in cui aveva creduto con tutte le sue forze. Un universo di valori e norme – quello di Cosa Nostra – che viene stravolto dai mafiosi corleonesi, i veri “traditori” posseduti dall’auri sacra fames, dal denaro cioè dalla droga e dalla corruzione politica. Va dato merito a Pierfrancesco Favino di avere dato vita a un personaggio indimenticabile, che ricalca in modo sbalorditivo, commovente, il Buscetta che ho conosciuto: un uomo affascinante, a più strati, coerente e contraddittorio, violento e tenero, innamorato della vita e votato alla tragedia, sua personale e, purtroppo, di chiunque gli sia stato vicino. Favino è riuscito a cogliere e rappresentare la dimensione più profonda di Buscetta: il suo essere nello stesso tempo un perfetto mafioso e un uomo che cerca di fuggire dalla mafia, perché la trascende, avendone intuito tutta la sventurata meschinità: “Quanto ero stato sciocco e presuntuoso nel voler fuggire dalla Sicilia e dalla setta fosca che mi aveva imprigionato! Il mafioso è un pesce di scoglio, piccolo, meschino, pratico, che ha bisogno di una tana e di tanti anfratti. Io pretendevo di fare il pesce di acqua blu, che si muove negli oceani e parla con le stelle!” (Addio Cosa Nostra, Chiarelettere).
In questo senso Buscetta ha rappresentato un caso unico, perché la sostanza umana che compone la mafia è davvero misera. Tutti i mafiosi che ho incontrato mi hanno colpito per la loro mediocrità. Mi sono perciò chiesto come fosse stato possibile che un soggetto così squallido come quello che avevo di fronte fosse stato capace di gesta malefiche tanto celebrate. E la migliore definizione che mi riesce di trovare dei mafiosi è: piccoli uomini dentro grandi storie. Ed è proprio la grande storia dentro cui si è svolta l’umana avventura di Buscetta che costituisce la parte più debole della fatica di Bellocchio. Che è comunque un filmone, lontano anni luce dalle Piovre, ma tutta la seconda parte, dall’incontro di Buscetta con Falcone in poi, non è all’altezza dell’estremo gioco di potere, di inganno e di morte dentro il quale i destini di tre uomini si sono irrimediabilmente avvinghiati nell’Italia della fine del secolo passato. Mi riferisco alla coppia Falcone/Buscetta da un lato e a Giulio Andreotti dall’altro. Il finale di partita inizia, evvero, nel 1984 con la decisione di Buscetta di collaborare, e con la svolta di Falcone che rompe il tabù quasi centenario di dar credito a un mafioso che parla con le autorità. E da qui nasce la maggiore opera di Giovanni Falcone: il maxi-processo del 1986-87, cioè il colpo di maglio che ha spezzato la schiena della mafia siciliana. Ma c’è stato di più. Già nel 1985 Buscetta rivela a Falcone il segreto dei segreti: l’identità del massimo protettore e capo di Cosa Nostra, che non era altro che il premier in carica. Rivelazione fatale, messa per iscritto solo dopo Capaci a causa della sua dirompenza, ma traccia fondamentale per Falcone/Borsellino.
Sono stato amico e collaboratore di entrambi. E ho navigato assieme a loro dentro i gelidi canali dell’impunità mafiosa, seguendo la Stella Polare mostrataci da Buscetta: dalle cosche di Palermo ai cugini Salvo, alla Cassazione, al governo, ai servizi di sicurezza, alle logge massoniche delinquenti. Una missione di giustizia tenace, discreta e dolente, condotta dai due grandi italiani fino all’ultimo. Il film dà conto del maxi-processo e dei processi contro Andreotti degli anni successivi, ma la ricostruzione è un po’ troppo televisiva, scialba e confusa. I personaggi dal lato dello Stato, a cominciare da Falcone, sono rigidi e poco espressivi. Il rapporto di Buscetta con il giudice è stato più intenso e vero di quanto venga rappresentato. Se Bellocchio avesse approfondito meglio, sarebbe emersa una profonda stima reciproca e la sconsolata consapevolezza del viaggio senza ritorno intrapreso in nome della legge e, per Buscetta, al di là della vendetta.
Infine, una delle maggiori carenze de Il traditore è il ruolo di Cristina, l’ultima moglie di Buscetta: donna fuori del comune, che da sola avrebbe meritato un film, e senza la quale la vicenda di Buscetta sarebbe terminata presto, o non sarebbe cominciata.
https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2019/09/26/il-traditore-e-un-buon-film-ma-il-gioco-di-potere-era-altro/5478610/
Il Fatto Quotidiano, 13 Settembre 2019
Il sigillo finale sulla liberalizzazione delle droghe pesanti è stato apposto negli Stati Uniti lungo gli ultimi vent’anni. E quasi nessuno se n’è accorto, un po’ per malafede ideologica e un po’ perché le cose più difficili da vedere sono quelle che si trovano sotto gli occhi di tutti. Che cosa è accaduto di tanto epocale negli Usa?
È successo che l’industria farmaceutica, con la complicità dei medici, dei regolatori governativi e di un Congresso tra i più corrotti dell’Occidente, ha messo in pratica alla lettera, una per una, le principali proposte dei liberalizzatori: la produzione e distribuzione legale di droghe ad alta capacità assuefattiva sotto controllo medico, a prezzi ragionevoli, in risposta a una domanda prima soddisfatta da produttori e venditori criminali. La legislazione vigente, fortemente proibitiva, è stata bypassata d’un colpo etichettando come antidolorifici prodotti oppiacei simili alla morfina e all’eroina. Ma con la fondamentale differenza di una potenza fino a 50-100 volte superiore a quella dell’eroina. Oxycodon e soprattutto Fentanyl stanno all’eroina come questa sta alla birra. Una dozzina di imprese – tra cui colossi multinazionali come Johnson&Johnson, che si rifornisce di oppio dal circuito lecito della produzione di papavero, quello supervisionato dall’Onu – hanno ammassato grandi fortune tramite una serie di aggressive campagne di marketing presso cliniche e medici, nonché corruzione hard e soft presso parlamentari e dirigenti della Federal Drug Administration, l’agenzia che rilascia le licenze di vendita dei farmaci. Campagne e soldi finalizzati a negare o minimizzare l’aspetto assuefattivo ed esaltare l’effetto antidolorifico delle loro micidiali pillole neoliberal. I medici americani hanno inondato i pazienti di prescrizioni fasulle e ridondanti, facendo impennare le vendite degli oppiacei più potenti. E hanno dato impulso, come beffardo effetto collaterale, al vecchio mercato illecito che si trovava in crisi proprio per carenza di domanda. Il risultato di questo capolavoro del capitalismo neoliberale ha oltrepassato le più fosche previsioni dei cosiddetti “proibizionisti”. La domanda di droghe pesanti – legali e illegali – non è semplicemente aumentata, ma è esplosa negli Stati Uniti del nuovo secolo portando il numero dei consumatori regolari da meno di uno a svariati milioni, con l’inevitabile corredo di morti per overdose.
Queste hanno raggiunto oggi la cifra di 70 mila all’anno, e di quasi 500 mila negli ultimi due decenni. Questa tragedia americana miete in un anno molte più vittime di quelle (44 mila) della guerra del Vietnam, durata 14 anni, ed è diventata la prima causa di morte per gli americani sotto i 50 anni di età. Coniugata alla crescita parallela dei suicidi e dell’alcolismo, essa contribuisce pesantemente alla diminuzione delle aspettative di vita del- l’intera popolazione Usa che si verifica da quattro anni a questa parte. Aspettative che aumentano, com’è noto, in quasi tutto il resto del mondo. Qualche lettore a questo punto si sentirà un po’ preso di sorpresa perché privo di informazioni sul tema. Ma può consolarsi col fatto che solo di recente i media americani hanno iniziato a occuparsi dell’epidemia di oppiacei, attirati da qualche morte eccellente di overdose e dalle cifre dei risarcimenti che i tribunali hanno iniziato a infliggere ai campioni di Big Pharma. I quali pagano le multe senza battere quasi ciglio, tanto grandi sono i profitti accumulati e tanto certa è l’indifferenza di governo e Congresso per una tabe che colpisce in prevalenza le classi medio-basse, i reduci di guerra, i poveri e i declassati.
Si tratta, evvero, della maggioranza della popolazione. E si tratta senza dubbio della minaccia n. 1 all’integrità fisica e mentale dei cittadini americani. Ma in una plutocrazia spietata, governata dall’uno per cento di super-ricchi schiavi del culto fanatico del mercato, sono solo i pericoli inventati o gonfiati, e quelli che consentono di fare soldi, che tengono banco nei media e dettano l’agenda dello Stato. Non illudetevi perciò di veder nascere alcun piano speciale antidroga del governo, né di assistere ad alcun tentativo credibile di proibire, controllare o reindirizzare l’industria delle droghe legali. Il dibattito pubblico non si cura delle sue vittime, e i suoi interessi sono troppo vicini al cuore di pietra del capitalismo americano.
https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2019/09/13/ne-uccide-piu-la-droga-legale-del-vietnam/5450083/
Il Fatto Quotidiano, 11 Agosto 2019
Sistema dannoso - Il modello neoliberale nel quale siamo vissuti dagli anni ‘70 in poi fa acqua da tutte le parti ed è diventata la principale minaccia al benessere fisico e mentale di qualsiasi popolazione
Sono in auge vari indicatori per misurare la felicità (o l’infelicità) umana, ma il più attendibile resta il tasso dei suicidi. Che non è un sondaggio sulla fatica o la gioia di vivere bensì un dato hard, che richiede la presenza di un corpo senza vita. Ebbene, le ultime ricerche mostrano che i suicidi diminuiscono a livello globale con l’importante eccezione degli Stati Uniti, dove continuano a crescere. Perché? Perché nonostante il catastrofismo dilagante promosso dall’industria occidentale della paura, progresso e sicurezza umani continuano ad avanzare, soprattutto fuori dall’Europa e fuori dagli Usa. E perché il modello del capitalismo neoliberale nel quale siamo vissuti dagli anni ‘70 in poi fa acqua da tutte le parti ed è diventata la principale minaccia al benessere fisico e mentale di qualsiasi popolazione. Secondo uno studio recente (https//doi.org/10.1136/bmy.194), la flessione delle morti globali per suicidio negli anni 1990-2016 è del 32,7%, ed è dovuta in massima parte al dimezzamento dei suicidi femminili (-49% contro -23% maschili). Più in particolare, sono le donne di quasi tutti i paesi dell’Asia orientale e sudorientale, Cina e India in testa, a registrare la crescita più ingente della salute mentale, della voglia di vivere. In Cina, la diminuzione del 64% dei suicidi totali è dovuta in larga parte al crollo dei suicidi delle donne sotto i venti anni di età. Dagli anni ‘90 in poi questo tasso si è ridotto del 90%: 500mila vite dell’età della speranza risparmiate, il 25% del totale mondiale dello stesso periodo. Stesso trend in India e altri paesi della regione, sia pure con cifre minori. Paesi che traboccano di nuove generazioni piene di fiducia nel futuro. Chi si riempie la bocca con la retorica delle immacolate liberaldemocrazie contrapposte al dispotismo cinese o alla corruzione indiana dovrebbe riflettere sulle conseguenze di questi dati, che dimostrano come anche in sistemi alternativi al capitalismo neoliberale possano crescere integrazione sociale e stabilità politica. E dovrebbe riflettere anche su un altro motore della diminuzione globale dei suicidi: il caso dei suicidi di persone di mezza età nella Russia postcomunista, decresciuti grandemente dal 2000 ad oggi. Dalla data, cioè, in cui l’avvento della tanto esecrata “era Putin” ha posto fine alla spaventosa impennata suicida degli anni ‘90. Gli anni di Yeltsin e del suo capitalismo liberalmafioso benedetto dall’Europa e guidato dai consiglieri americani. Privatizzazioni e liberalizzazioni a tutto spiano, che hanno fatto più danni al popolo russo della seconda guerra mondiale: iperinflazione, crollo del Pil, povertà, disoccupazione ,alcolismo, droga e suicidi che hanno richiesto altri dieci anni, con Putin, per essere alleviate e superate. Ma torniamo alle giovani donne dell’Asia orientale e sudorientale che non si suicidano più. Le ragioni sono abbastanza note. Urbanizzazione ed autonomia economica che hanno fatto crollare i matrimoni combinati, le schiavitù familiari e di clan, le maternità imposte. In una parola, l’emancipazione. Favorita dallo sviluppo economico e da politiche di protezione sociale intraprese da governi di colori disparati, dai nazionalisti indiani, malesi e indonesiani ai comunisti cinesi e vietnamiti. Il trend sui suicidi è coerente con una valanga di altri dati sulla riduzione della povertà, l’aumento del tenore di vita, dell’occupazione, dell’istruzione e dei servizi sanitari in una parte del mondo che supera ormai l’Occidente per Pil e popolazione. Se invece di guardarla dall’alto in basso per non avere creato in due generazioni quelle istituzioni politiche che l’Occidente ha impiegato quasi 300 anni a costruire, provassimo a comprendere i motivi del successo asiatico nel migliorare le basi fisiche e mentali della società, riusciremmo forse a capire meglio le ragioni del deterioramento di queste stesse basi presso di noi, e in particolare nel paese che fino a poco tempo fa ha guidato il mondo occidentale. I suicidi sono quasi raddoppiati negli Stati Uniti degli ultimi due decenni perché in quel paese si è materializzato il detto di Polanyi che il mercato autoregolato, lasciato a se stesso, finisce col distruggere “la sostanza umana e naturale della società”. L’aumento dei suicidi si accompagna negli Usa a una crescita senza precedenti della disperazione sociale e delle malattie indotte da droga, alcol e guerre. Sì, guerre. Le sconsiderate avventure mediorientali post-11 settembre hanno depositato una torma di reduci infermi fisici e mentali che ammonta all’8% della popolazione totale, e che genera alcolismo, consumo di droghe, suicidi e violenze quotidiani. E dei quali nessuno ama parlarne o occuparsene. Accanto ai veterani disperati c’è una vasta classe di lavoratori bianchi impoveriti dal declino dell’industria e dallo strapotere della finanza che alimenta anch’essa, con il consumo di droghe pesanti e la vulnerabilità alle malattie, il degrado generale della salute. E che vota per Trump, visto come protettore invece che carnefice. Ma l’attacco più micidiale sferrato dal mercato alla sostanza materiale della società americana è costituito dalla liberalizzazione mascherata del consumo di droghe pesanti effettuata dalle industrie farmaceutiche fin dall’inizio di questo secolo. Esse hanno cominciato a produrre e distribuire medicinali antidolorifici a base di oppiacei molto più potenti e pericolosi dell’eroina. La complicità dei medici americani ha consentito di espandere la platea dei consumatori legali fino a 8 milioni di individui. L’ecatombe dei morti per overdose ha oggi superato le 65mila unità annuali, contro le 44mila vittime della guerra del Vietnam. Non è un caso che molti lettori abbiano sentito parlare di questo tema qui per la prima volta.
https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2019/08/11/capitalismo-fatale-o-della-liberta-dammazzarsi-di-piu/5382158/
Il Fatto Quotidiano, 11 agosto 2019
Sono in auge vari indicatori per misurare la felicità (o l’infelicità) umana, ma il più attendibile resta il tasso dei suicidi. Che non è un sondaggio sulla fatica o la gioia di vivere bensì un dato hard, che richiede la presenza di un corpo senza vita. Ebbene, le ultime ricerche mostrano che i suicidi diminuiscono a livello globale con l’importante eccezione degli Stati Uniti, dove continuano a crescere. Perché?
Perché nonostante il catastrofismo dilagante promosso dall’industria occidentale della paura, progresso e sicurezza umani continuano ad avanzare, soprattutto fuori dall’Europa e fuori dagli Usa. E perché il modello del capitalismo neoliberale nel quale siamo vissuti dagli anni ‘70 in poi fa acqua da tutte le parti ed è diventata la principale minaccia al benessere fisico e mentale di qualsiasi popolazione. Secondo uno studio recente (https://doi.org/10.1136/bmj.l94), la flessione delle morti globali per suicidio negli anni 1990-2016 è del 32,7%, ed è dovuta in massima parte al dimezzamento dei suicidi femminili (-49% contro -23% maschili). Più in particolare, sono le donne di quasi tutti i paesi dell’Asia orientale e sudorientale, Cina e India in testa, a registrare la crescita più ingente della salute mentale, della voglia di vivere. In Cina, la diminuzione del 64% dei suicidi totali è dovuta in larga parte al crollo dei suicidi delle donne sotto i venti anni di età. Dagli anni ‘90 in poi questo tasso si è ridotto del 90%: 500mila vite dell’età della speranza risparmiate, il 25% del totale mondiale dello stesso periodo. Stesso trend in India e altri paesi della regione, sia pure con cifre minori. Paesi che traboccano di nuove generazioni piene di fiducia nel futuro. Chi si riempie la bocca con la retorica delle immacolate liberaldemocrazie contrapposte al dispotismo cinese o alla corruzione indiana dovrebbe riflettere sulle conseguenze di questi dati, che dimostrano come anche in sistemi alternativi al capitalismo neoliberale possano crescere integrazione sociale e stabilità politica. E dovrebbe riflettere anche su un altro motore della diminuzione globale dei suicidi: il caso dei suicidi di persone di mezza età nella Russia postcomunista, decresciuti grandemente dal 2000 ad oggi. Dalla data, cioè, in cui l’avvento della tanto esecrata “era Putin” ha posto fine alla spaventosa impennata suicida degli anni ‘90. Gli anni di Yeltsin e del suo capitalismo liberalmafioso benedetto dall’Europa e guidato dai consiglieri americani. Privatizzazioni e liberalizzazioni a tutto spiano, che hanno fatto più danni al popolo russo della seconda guerra mondiale: iperinflazione, crollo del Pil, povertà, disoccupazione ‚alcolismo, droga e suicidi che hanno richiesto altri dieci anni, con Putin, per essere alleviate e superate. Ma torniamo alle giovani donne dell’Asia orientale e sudorientale che non si suicidano più. Le ragioni sono abbastanza note. Urbanizzazione ed autonomia economica che hanno fatto crollare i matrimoni combinati, le schiavitù familiari e di clan, le maternità imposte. In una parola, l’emancipazione. Favorita dallo sviluppo economico e da politiche di protezione sociale intraprese da governi di colori disparati, dai nazionalisti indiani, malesi e indonesiani ai comunisti cinesi e vietnamiti. Il trend sui suicidi è coerente con una valanga di altri dati sulla riduzione della povertà, l’aumento del tenore di vita, dell’occupazione, dell’istruzione e dei servizi sanitari in una parte del mondo che supera ormai l’Occidente per Pil e popolazione. Se invece di guardarla dall’alto in basso per non avere creato in due generazioni quelle istituzioni politiche che l’Occidente ha impiegato quasi 300 anni a costruire, provassimo a comprendere i motivi del successo asiatico nel migliorare le basi fisiche e mentali della società, riusciremmo forse a capire meglio le ragioni del deterioramento di queste stesse basi presso di noi, e in particolare nel paese che fino a poco tempo fa ha guidato il mondo occidentale. I suicidi sono quasi raddoppiati negli Stati Uniti degli ultimi due decenni perché in quel paese si è materializzato il detto di Polanyi che il mercato autoregolato, lasciato a se stesso, finisce col distruggere “la sostanza umana e naturale della società”. L’aumento dei suicidi si accompagna negli Usa a una crescita senza precedenti della disperazione sociale e delle malattie indotte da droga, alcol e guerre. Sì, guerre. Le sconsiderate avventure mediorientali post-11 settembre hanno depositato una torma di reduci infermi fisici e mentali che ammonta all’8% della popolazione totale, e che genera alcolismo, consumo di droghe, suicidi e violenze quotidiani. E dei quali nessuno ama parlarne o occuparsene. Accanto ai veterani disperati c’è una vasta classe di lavoratori bianchi impoveriti dal declino dell’industria e dallo strapotere della finanza che alimenta anch’essa, con il consumo di droghe pesanti e la vulnerabilità alle malattie, il degrado generale della salute. E che vota per Trump, visto come protettore invece che carnefice. Ma l’attacco più micidiale sferrato dal mercato alla sostanza materiale della società americana è costituito dalla liberalizzazione mascherata del consumo di droghe pesanti effettuata dalle industrie farmaceutiche fin dall’inizio di questo secolo. Esse hanno cominciato a produrre e distribuire medicinali antidolorifici a base di oppiacei molto più potenti e pericolosi dell’eroina. La complicità dei medici americani ha consentito di espandere la platea dei consumatori legali fino a 8 milioni di individui. L’ecatombe dei morti per overdose ha oggi superato le 65mila unità annuali, contro le 44mila vittime della guerra del Vietnam. Non è un caso che molti lettori abbiano sentito parlare di questo tema qui per la prima volta.
https://www.ilfattoquotidiano.it/…/capitalismo-fat…/5382158/
di Pino Arlacchi | 18 luglio 2019
Non riportare mai la versione dell’altra parte in campo e limitarsi a ripetere la stessa storiella, senza il minimo approfondimento, sono diventati le regole seguite dai media mainstream nel trattare i fatti internazionali. Che si tratti di Cina, Venezuela, guerre, massacri e catastrofi, ogni volta che si deve informare si ricorre a una formuletta preconfezionata. Che coincide regolarmente con gli interessi dei proprietari dei mezzi di comunicazione, dei governi occidentali e dello 0,1% che tenta di governare le cose del mondo.
Per rompere questa corruzione mediatica, che svuota di senso il discorso democratico e ci mette nelle mani di una plutocrazia sempre più ristretta, occorre immergersi nel caos delle fonti alternative di informazione o fondare giornali indipendenti. Oppure essere dei premi Nobel come Paul Krugman. Il quale si può permettere dalle colonne del New York Times di elencare le forme attraverso cui lo 0,1% distorce a proprio vantaggio le priorità pubbliche. E produce, aggiungiamo noi, la comunicazione ipersemplificata, falsa e omissiva di cui siamo vittime. Ecco la lista di Krugman: 1) Corruzione hard: mazzette di soldi a politici e giornalisti. 2) Corruzione soft. Cioè “porte girevoli” tra governo e business, compensi per giri di conferenze, membership di club esclusivi. 3) Contributi elettorali. 4) Definizione dell’agenda politica attraverso la proprietà dei media e dei think tank, in modo da far prevalere priorità che fanno spesso a pugni con la ragionevolezza e il bene comune (P. Krugman, NYT 22.6.2019). Quando lo 0,1% decide che un Paese va attaccato – o perché privo di armi nucleari e ricco di risorse naturali, o perché in grado di competere sul piano economico e geopolitico, o perché attestato su posizioni ostili alla finanza neoliberale, o per una combinazione di questi motivi – scatta un assalto coordinato al suo governo. Le altre priorità di politica estera scompaiono, e parte la crociata mediatica. Poiché viviamo in un’epoca di diffusa avversione alla guerra, il pretesto preferito per aggredire un Paese è diventato quello umanitario e della violazione dei diritti umani.
La corruzione mediatica ha di recente preso di mira la Cina, attraverso la disinformazione sulle proteste che avvengono a Hong Kong in queste settimane presentate come manifestazioni di difesa delle libertà politiche dei cittadini da un trattato di estradizione che consentirebbe alla Cina di prelevare da Hong Kong i dissidenti per imprigionarli nella madrepatria. Non una parola viene sprecata per ricordare: A) che Hong Kong fa parte della Cina, ed è una regione a statuto speciale tornata a far parte della Cina stessa dal 1997 dopo essere stata per oltre un secolo colonia inglese in conseguenza delle guerre vinte dalla Gran Bretagna nell’Ottocento in nome della libertà di vendere l’oppio ai milioni di tossicodipendenti cinesi. B) che la Cina ha rispettato le istituzioni democratiche introdotte a Hong Kong dagli inglesi all’ultimo minuto prima della loro dipartita. C) che la maggioranza degli elettori della città sono pro-Cina e che i partiti anticinesi continuano a perdere consensi. D) che il trattato riguarda i reati comuni sopra i 7 anni di carcere (omicidi, rapine, stupri, etc.) puniti in entrambi i sistemi. Ed esclude quindi qualunque possibilità di uso politico. E) che la Cina lamenta il fatto che Hong Kong ha firmato solo 20 trattati di estradizione con paesi esteri ed è diventata perciò un ricettacolo della delinquenza cinese ed internazionale di ogni risma: dagli assassini di alto bordo ai contrabbandieri, dai politici corrotti ai mega-truffatori finanziari che risiedono sul posto imboscando il loro malloppo (Hong Kong è ancora uno dei massimi paradisi fiscali). A proposito di quest’ultimo punto, è stato a Hong Kong che, da vicepresidente della Commissione antimafia, il sottoscritto ha trovato le tracce, nel 1995, di qualche soldino depositato per conto di Bettino Craxi. F) che il vero problema che sta alla base del disagio degli abitanti di Hong Kong è il suo declino come centro finanziario rispetto alla crescita impetuosa della madrepatria e della zona confinante di Shenzhen dopo il 1997. Crescita dovuta allo sviluppo di una vasta industria manifatturiera che sta agli antipodi della finanza semi-criminale di Hong Kong. Scavalcata ampiamente, tra l’altro, nella sua componente legale, dalle Borse di Shanghai e Guangzhou.
Una parte degli abitanti di Hong Kong, perciò, coltiva il sogno di un ritorno al passato che preservi uno status di hub finanziario che per la Cina ha perso rilevanza. E che non è sintonia con le politiche di Pechino volte a favorire l’economia reale a scapito della finanza privata. Ma è una storia non facile da raccontare. Lo 0,1% preferisce far passare una storiella più sbrigativa, con il tiranno Xi Jinping da un lato e gli eroi della democrazia liberale dall’altro.
https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2019/07/18/hong-kong-la-storia-che-non-leggerete/5333463/
Di seguito il mio commento per L'Antidiplomatico riguardo alle grossolane esagerazioni e falsità contenute nel Rapporto dell'Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani Michelle #Bachelet sulla situazione in #Venezuela (https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-esclusiva_ex_vi…/…/).
Ex Vice Segretario ONU sul Rapporto Bachelet: "Molti dati sono inventati o grossolanamente esagerati. E' un'operazione contro il Venezuela"
di Fabrizio Verde | 15 luglio 2019
Professore, partiamo dall'attualità. Il Parlamento venezuelano “in ribellione” ha annunciato di voler inviare il Rapporto molto controverso dell’Alto Commissario Bachelet alla Corte penale internazionale. Con quali sviluppi?
Le denunce alla Corte Penale internazionale vengono vagliate attentamente. In questo caso, la probabilità che questo rapporto venga preso sul serio è nulla. Gli errori, le omissioni e le contraddizioni logiche e fattuali, nonché il suo aperto pregiudizio anti-venezuelano, sono eclatanti. Il rapporto ignora le conclusioni di un altro rapporto ONU, prodotto due anni prima dall’osservatore indipendente Alfredo De Zayas, che fa risalire in massima parte alle feroci sanzioni americane l’ attacco al benessere, alla salute ed ai diritti fondamentali dei cittadini venezuelani che si è dispiegato dal 2015 in poi, aiutato dalla caduta dei prezzi del petrolio. Le sanzioni sono state e sono il più grande crimine in atto in Venezuela, la maggiore violazione del diritto alla vita, alla salute e alla sicurezza dei suoi cittadini. Non parlare di questa mega-violazione dei diritti umani è disonesto e vergognoso.
E’ noto come l’ex Presidente del Cile abbia incontrato nella sua visita in Venezuela i rappresentanti del Comitato Vittime delle Guarimbas e altri protagonisti diretti della violenza cieca dell’estrema destra del paese. Ma nel rapporto non vi è incredibilmente traccia. Come si può spiegare una negligenza così palese?
Non c’è solo questa negligenza. E’ il metodo seguito che è sbagliato. L’ 82% delle interviste che danno sostanza al rapporto sono state condotte fuori dal Venezuela. Quasi tutte le cifre “sparate” dagli autori sulle presunte enormi violazioni dei diritti provengono da una sola fonte: le NGOs che fanno capo all’ opposizione. Le informazioni provenienti dal governo o da fonti discordanti con la narrativa decisa prima di mettere piede in Venezuela non sono state messe a confronto in modo sistematico. Un minimo di correttezza avrebbe richiesto di mettere a disposizione dei lettori del rapporto anche la versione del governo sugli stessi fatti, e anche sui non-fatti, visto che molti dati sono inventati o grossolanamente esagerati.
Quali differenze emergono tra i dati del governo e quelle fatte proprie dal Rapporto prese dalle ONG?
Nei rari casi in cui il confronto viene eseguito, la differenza tra le cifre del governo e quelle delle NGOs non è enorme: 1.569 casi di omicidio legati ad episodi di “resistenza alle autorità” tra il Gennaio e il Maggio 2019 dichiarate dal governo contro 2.124 casi riscontrati da una NGO. Le cifre delle NGO non distinguono però tra delinquenti uccisi da un lato e membri delle forze dell’ordine uccisi da criminali estremamente violenti durante arresti, raid, pattugliamenti e scontri a fuoco dall’altro. Il rapporto riesce a citare solo un caso specifico di 20 giovani criminali uccisi dalle forze speciali tra il Giugno 2018 e l’ Aprile 2019. E non dice cosa ha fatto il governo per perseguire gli eventuali responsabili.
Secondo Lei il governo venezuelano sta coprendo degli abusi?
Il governo ha confutato in dettaglio, nei 70 punti della sua risposta al rapporto Bachelet, le contestazioni sollevate. Ha dato accesso pieno a luoghi, persone e documenti. Come tutti sanno, le dittature aprono le porte delle carceri ai team ONU, consentono di incontrare vittime vere e presunte, dentro e fuori in paese, ascoltare partiti e persone di ogni colore, entrare in ogni ufficio pubblico e recarsi dovunque. Ed è anche tipico delle tirannie richiedere l’ apertura di un ufficio ONU per i diritti umani nel proprio paese, nonché impegnarsi a perseguire ogni abuso che gli venga segnalato.
Il governo venezuelano ha ammesso di conoscere 292 casi di possibili abusi gravi da parte delle proprie forze speciali, FAES, e di avere messo sotto accusa 388 funzionari per fatti accaduti nel 2018. Ha anche dichiarato di avere messo in atto misure di risarcimento delle famiglie e di riabilitazione delle vittime. Non mi sembra un comportamento di copertura. Ovviamente, il rapporto Bachelet omette di riportare questa informazione, regolarmente fornita al team ONU. Come omette di informare su altri casi di funzionari di polizia puniti severamente per eccessi e crimini commessi nell’esercizio delle loro funzioni.
E per quel che riguarda le cifre sulle violenze delle manifestazioni dell'opposizione?
Il rapporto non parla della violenza delle forze di opposizione. Il governo parla di 29 morti tra cui 9 funzionari uccisi e 1.263 feriti nel corso delle manifestazioni messe in atto dall’opposizione politica più eversiva del mondo: 23.727 proteste in strada tra il 2017 e il maggio 2019, la metà delle quali caratterizzate da fatti di violenza: incendi, barricate, attacchi ad edifici, spari contro passanti e polizia. La quale polizia non può, per dettato costituzionale fatto rispettare, detenere armi in funzioni di ordine pubblico. Solo durante emergenze, se attaccata con armi da fuoco, la guardia nazionale viene rifornita di armi provenienti da luoghi separati dalla piazza. Ero a Caracas nel giorno del tentato golpe di Guaidò, il 30 Aprile scorso, ed ho potuto verificare con i miei occhi questo fatto assolutamente singolare.
Invece, il rischio che i manifestanti trasformino una protesta di strada in un tiro a segno contro le forze dell’ordine, o contro astanti estranei alla protesta per poi incolpare la polizia, è consistente: 44 arresti per omicidi tentati e commessi durante proteste tra il 2017 e il 2019.
I media parlano di "arresti di massa" da parte di una "dittatura spietata"...
Secondo la cifra più alta e non controllata fornita da una NGO di opposizione, in cinque anni e mezzo, dal Gennaio 2014 al Maggio 2019, sono stati effettuati 15.045 arresti collegati alle attività dell’opposizione. Da esperto di sicurezza posso affermare che si tratta di una cifra molto bassa, a fronte delle 23.700 manifestazioni sopracitate, ed a fronte della brutalità dei manifestanti. Le stesse fonti ci informano, inoltre, che solo 793 persone risultavano ancora agli arresti al 31 maggio 2019. Una piccola parte di queste è costituita da esponenti politici che hanno commesso atti di violenza, o li hanno organizzati nel contesto di attività terroristiche o eversive che non sarebbero tollerate in alcun paese democratico. Nessun governo tollererebbe, in Europa, neanche il 10% dei disordini che avvengono ogni giorno nelle città del Venezuela. Vi immaginate Parigi, Londra o Roma paralizzate in continuazione, e per anni, da rivolte di piazza, interruzioni di servizi pubblici essenziali, vandalismi e violenze messi in atto con lo scopo dichiarato di creare il caos e di ottenere così ciò che è impossibile ottenere con il voto?
Provate a fare un parallelo con la reazione del governo francese alle prime avvisaglie delle piazzate dei Gilet Gialli. Oppure a quello che la Spagna ha fatto, con l’ approvazione unanime dell’Europa, contro gli indipendentisti catalani che non avevano tirato neanche un sasso. Arresti e incarcerazioni a catena per reati esclusivamente politici, e senza che venissero accompagnati da alcun atto violento.
Le autorità di Caracas hanno denunciato che dietro il rapporto ci sia la mano di Elliot Abrams. In pratica Bachelet avrebbe solo firmato un documento zeppo di errori e imprecisioni. A suo avviso sono state forti le pressioni statunitensi? Bachelet perché ha avallato questo modo di agire chiaramente scorretto?
Per come conosco l’ ONU, avendone diretto buona parte, non c’è stato bisogno di alcuna pressione americana per produrre un manufatto così scadente. Ci sono sempre i funzionari che si offrono volontari e corrono in soccorso delle grandi potenze. Gente che si presta di propria iniziativa al gioco di screditare un paese finito nel mirino della prepotenza americana. Ho combattuto con tutte le mie forze questa gente, ma nel caso del rapporto dell’Alto Commissario sui diritti umani in Venezuela, devo dire che la responsabilità di questo prodotto che scredita le Nazioni Unite è tutta di chi l’ha firmato. La Bachelet è un ex-Presidente rifugiatasi all’ ONU ansiosa di riciclarsi da qualche parte. Ha preparato ed avallato fin nei particolari tutta l’ operazione contro il Venezuela.
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