Siria, il caso delle armi ai ribelli

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l'Unità, 5 nov. 2012

L'intervento di Pino Arlacchi

(Questo articolo è stato ripreso integralmente dal servizio della BBC Monitoring European ed è disponibile a questo link nella versione inglese).

Quanto accade oggi in Siria sembra contraddire il detto che la storia non si ripete se non sotto forma di farsa. Un'originaria tragedia accaduta in Afghanistan trent’anni fa  si sta ripetendo sotto forma di una tragedia ancora più grande.

Sappiamo infatti da fonti ben informate che la maggior  parte delle armi inviate in Siria dagli Usa e dai loro alleati allo scopo di rovesciare il regime di Bashar Assad stanno finendo nelle mani di estremisti islamici del tutto simili ai mujaheddin afghani degli anni ’80.

Come andarono allora le cose?

L’Unione Sovietica aveva invaso l’Afghanistan nel 1979 installandovi un governo amico ed alterando gli equilibri della Guerra fredda nella regione. Gli Stati Uniti, l’Arabia saudita ed altri paesi decisero allora di finanziare ed armare le milizie afghane anticomuniste.  Usando il Pakistan come intermediario, Usa  e alleati si trovarono a dover distribuire armi di ogni genere ad un variopinto arco di «combattenti per la libertà». Una buona metà di queste milizie erano composte da quelli che oggi chiamiamo «jihadisti islamici. Tra questi c’era un ricco saudita, tal Bin Laden, che andò emergendo prima come finanziatore e poi come capo militare.

L’Afghanistan fu inondato di armi leggere, e infine anche dai micidiali missili antiaerei Stinger, che buttarono giù un bel numero di elicotteri d’attacco russi.

Il governo di Najibullah non aveva fatto quasi in tempo a cadere nel 1992, tre anni dopo il ritiro dell’Urss, che i combattenti della libertà si erano già divisi tra loro ed avevano iniziato una nuova guerra civile tra i Talebani, sostenuti dagli Usa e dal Pakistan da un lato, e l’Alleanza del Nord, armata dalla Russia, dall’ Iran e da altri sul versante opposto.

I Talebani entrarono a Kabul nel 1996 e governarono l’Afghanistan fino a poco dopo l’11 settembre 2001, quando gli americani - divenuti nel frattempo loro nemici -  invasero il paese per punirli della loro ospitalità a Bin Laden.

Ma le armi in mano oggi ai talebani ed agli altri gruppi che combattono contro gli Usa sono ancora in larga parte quelle donate loro dalla Cia  trenta anni prima. E lo stesso vale per il training di guerriglia, gli esplosivi, e per alcuni personaggi come Gulbuddin Hekmatyar, spietato combattente antisovietico ieri, efferato macellaio anti-americano oggi. Perfino i missili Stinger sono ancora lì, e li ho visti anche nelle mani dei trafficanti di droga che operano sul confine con l’Iran.

Adesso che gli Usa si ritirano sconfitti dall’Afghanistan e la sagoma di un take over talebano si staglia di nuovo all’orizzonte, è amara la lezione da trarre.

L’intervento dall’ esterno in una guerra civile o in una occupazione militare armando milizie locali non è mai risolutivo perché non  raggiunge l’obiettivo voluto ma sposta solo lo scontro su una nuova scala. Più sanguinosa, più ardua da affrontare in seguito con i mezzi della diplomazia e della politica.

Nella Siria di oggi come in Afghanistan tre decenni fa, è illusorio pensare che gli Stati Uniti, l’Europa o qualunque altro soggetto esterno siano in grado di controllare il destinatario finale delle armi. L’opposizione siriana è ancora più disorganizzata e divisa del fronte dei mujaheddin afghani. I suoi gruppi più forti militarmente sono proprio quelli composti da fondamentalisti islamici, e si sono distinti finora per un grado di crudeltà e di disprezzo per la sicurezza dei civili non dissimile da quello dei soldati di Assad.

Le operazioni clandestine di rifornimento di armi ai ribelli siriani, inoltre, non vengono effettuate direttamente, ma tramite intermediari. Il ruolo giocato dal Pakistan nel caso dell’Afghanistan viene qui svolto dai Sauditi e dal Qatar, soggetti che è improbabile si preoccupino di escludere gli islamisti più radicali.

Non c’è da sorprendersi se in Siria, come in Afghanistan, siano proprio le fazioni più estreme che si dimostrano le più valide sul campo di battaglia. Anche per effetto dell’opzione occidentale verso la militarizzazione de conflitto, ciò che era iniziato come una tappa della primavera araba e come un pacifico processo di cambiamento politico è degenerato in una brutale guerra civile. Una guerra che consiste di scontri feroci, dove i più feroci tra i gruppi di opposizione finiscono naturalmente col prendere il sopravvento.

Armare l’opposizione siriana contro un regime militarmente molto forte e relativamente coeso, appoggiato da gruppi significativi della popolazione, significa ridurre drasticamente le chances di un «soft landing» se  e quando Assad cadrà.

Significa spaventare sempre più quei siriani che sostengono il regime solo perché temono la prosecuzione delle violenze su larga scala.

Se Assad crolla, è da sciocchi aspettarsi che l’opposizione armata accetti la smobilitazione.

Essa tenterà di consolidare la propria posizione a costo di spaccarsi e iniziare un nuovo ciclo di violenze settarie,  ed anche a costo di rivoltarsi contro i suoi sponsor. Come in Afghanistan, appunto.

 

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