Terrorismi, guerre, inganni e paure

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Agoravox Italia
mercoledì 25 febbraio

di Damiano Mazzotti

Nel libro “L’inganno e la paura. Il mito del caos globale” (www.saggiatore.it, 2009), il Prof. Pino Arlacchi ci svela l’inganno catastrofista sul terrorismo, che serve probabilmente a mascherare gli inganni finanziari e l’incapacità di una classe politica che non riesce a gestire l’onnipotenza finanziaria delle banche private che ha fatto impazzire l’economia.

 

Del resto l’industria mediatica e l’apparato militare-industriale americano hanno bisogno di drammi e catastrofi per vendere meglio i loro “prodotti” e devono esagerare o inventare minacce per affermare il loro potere (già nel 1961 il presidente ex generale Eisenhower denunciò questi pericoli nel suo discorso di addio). L’opera di Arlacchi, che è una mirabile visione a 360 gradi del fenomeno più immorale e bestiale creato dalla specie umana, è una delle migliori trattazioni multidisciplinari della guerra: si tocca la storia,la sociologia, l’etologia, la psicologia e l’antropologia (per un’analisi più “letteraria” consiglio invece il libro di Joanna Bourke: “Le seduzioni della guerra. Miti e storie di soldati in battaglia”; e per approfondire il punto di vista socioeconomico consiglio di leggere “La grande trasformazione” di Polanyi, e “Cose viste. Viaggio attraverso un secolo di economia” di John Galbraith).

Pino Arlacchi

Ma veniamo al nocciolo della questione del pericolo del terrorismo… La realtà delle statistiche conferma che gli atti di terrorismo sono in netto calo dal 1980 ad oggi (fonti: Iterate, Rand-Mipt e Tweed), cosa che è in linea con il processo di civilizzazione: e cioè il trend plurisecolare di diminuzione delle guerre e della violenza interpersonale privata (Norbert Elias). Non sarei però così ottimista come l’autore sugli sviluppi futuri: nella cartina presente a p. 180 del libro si può verificare che il 90% dei recenti conflitti armati sono scoppiati in Africa e Asia, in Paesi con una forza presenza di cultura islamica fondamentalista. E la cultura fondamentalista è in aumento, e purtroppo lo è in genere anche il tasso di natalità delle persone fondamentaliste. A questo proposito citerei un’altra fonte, che conferma la bassa incidenza dei pericoli derivanti dal terrorismo ma l’alta pericolosità del fondamentalismo islamico: “Penso che l’Indonesia sia un caso interessante, che merita di essere studiato. Quando il miracolo economico asiatico andava a gonfie vele, l’Indonesia aveva ancora una forma di islam che si sarebbe potuta definire culturale, simile alla situazione in Turchia. Non sarebbe stato facile incontrare il fondamentalismo prima del 1994. Quando si verificò il miracolo economico asiatico, però, la maggioranza dei benestanti lasciò il paese, il sistema di istruzione crollò e dallo Yemen arrivarono le “madrasa”, che insegnano l’islam estremista (in gran parte gratuite per gli indonesiani poiché sono finanziate dal petrolio). A partire dal 1995, l’Indonesia ha visto crescere il fondamentalismo”. Non è l’istruzione, ma il suo contenuto, a rivestire particolare importanza (tratto dal libro di Alan B. Krueger, Terroristi perché. Le cause economiche e politiche, 2009).

Così, in queste 350 pagine che parlano della zona oscura dell’animo umano, e cioè dell’odio, della violenza e della guerra, viene lasciato il giusto spazio alla speranza e alla capacità di cooperazione umana. Infatti, una volta determinate le cause delle guerre può risultare più facile preparare la pace. Prendiamo come esempio la guerra in ex Jugoslavia, dove si possono identificare quattro fattori principali all’origine dei conflitti armati:

1) l’indebolimento estremo e poi il crollo di un monopolio centrale della violenza;

2) la presenza di progetti di potere razional-maniacali nutriti da élite politiche in pericolo;

3) l’apertura di opportunità significative per gli imprenditori della violenza;

4) la formazione di una vasta riserva di giovani disperati e disposti al rischio estremo.

Inoltre “L’esaltazione o l’invenzione delle differenze etniche e religiose interne è stata una delle strategie adottate dai leader delle ex repubbliche iugoslave di fronte alle gravi minacce create dalle crisi multiple degli anni ottanta e novanta” (Arlacchi, p 110). E sicuramente anche l’alta natalità è uno dei fattori antecedenti più importanti: le ultime guerre in Europa sono sorte nelle zone a più alta natalità (altro esempio il Kosovo). Poi naturalmente ci sono tutti gli eventi bellici legati al controllo delle risorse (pensiamo all’acqua della Cisgiordania per Israele), agli sconfinamenti territoriali e ai cicli offesa-vendetta (come avvenuto recentemente a Gaza), fino al futile desiderio di potere e di gloria dei politici più o meno psicopatici.

Un altro dato importante è che tutte le ricerche psicologiche e psichiatriche sui soldati hanno dimostrato che nel 90% degli esseri umani non c’è solo il terrore della morte e delle ferite, ma è presente anche la paura di uccidere: cioè di andare contro una regola fondamentale della fiducia e della moralità umana. La storia della guerra è la storia dei tentativi di scavalcare la resistenza naturale e sociale a uccidere, che è depositato nel profondo della coscienza umana e che si sta perdendo nelle ultime guerre tecnologiche troppo distanti dal nemico che non consentono di verificare le sofferenze che si infliggono (bombardamenti con aerei, missili o artiglieria).

E spesso succede che i massacri o i grandi conflitti siano organizzati e messi in atto da gruppi relativamente piccoli che hanno agito nella certezza dell’impunità e dell’assenza di reazione da parte della vittime” (Arlacchi, p. 247), come è avvenuto in Bosnia (John Mueller), o come avviene in Italia nelle guerre di Camorra e Mafia. Questi conflitti possono poi degenerare e portare anche ad esiti molto disastrosi come espresso in maniera magistrale da Jared Diamond (il suo ultimo libro è “Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere”).

Arlacchi, che è uno dei massimi studiosi di sicurezza umana (è stato vicesegretario generale dell’Onu dal 1997 al 2002), ha anche preso in esame la guerra da una prospettiva multiculturale e ha approfondito quella dell’antica e moderna cultura cinese che non esalta la guerra (Gaston Bouthoul, studioso delle guerre). Se guardiamo alla statistica la Cina ha condotto cinquanta guerre all’estero negli ultimi 2.200 anni, mentre in Europa si sono combattute lo stesso numero di guerre in 200 anni. Per i filosofi cinesi la guerra è un segno del fallimento etico e politico dei leader: “inanellare cento vittorie in cento battaglie non è l’acme dell’eccellenza, sottomettere il nemico senza combattere è l’acme dell’eccellenza”. “Mai si è visto un paese trarre beneficio da una guerra prolungata” (Sunzi). Per il filosofo Mozi era poi assurdo punire l’omicidio di un singolo essere umano e premiare l’assassinio di massa della guerra, e per Mencio la pace può venire solo dall’unità, e il mondo può essere unificato solo da colui che odia uccidere. Mencio era quindi un sostenitore dell’amore universale cinque secoli prima di Cristo (Arlacchi). La nostra cultura guerresca sanguinaria deriva invece dalla tragica eredità della cultura greca: quasi tutti i filosofi greci erano generali o soldati e hanno vissuto in tempi dove la pace duratura era praticamente inesistente (Eschilo, Socrate, Tucidide, Senofonte, Demostene, Eraclito, Platone,ecc.). Per questo a noi sembra etico bombardare e distruggere città intere (cosa che è “capitata” a russi, americani, tedeschi, inglesi, israeliani, ecc.). Anche gli uomini delle popolazioni “primitive” non tecnologiche hanno una filosofia simile alla nostra e considerano la guerra “un’attività deprecabile, ma necessaria in alcune sfortunate circostanze” (Arlacchi, p. 235), ma conducono una guerra meno assurda e infernale con sofferenze minime se paragonate alle mostruose ferite da guerra odierne. Ma bisogna considerare anche le moderne derive economiche: la realtà mondiale attuale è che “le guerre diventano sempre più imprese criminali organizzate, e queste ultime sono sempre più interessate alle guerre. Le guerre, come le mafie, sono divenute dei modi di vita, dei sistemi per produrre redditi, esercitare potere politico e dare impiego a giovani che si trovano precluse le strade normali della mobilità come l’istruzione e l’occupazione legale” (Arlacchi, p. 185). E i soggetti che le combattono si confondono sempre più con i delinquenti, i boss criminali, i capitalisti di ventura che sfruttano con arte i miti della bandiera e delle identità per mascherare i loro bottini e i loro affari sporchi di sangue (come è accaduto e accade ancora spesso nel Kosovo).

Però ci sono anche notizie rassicuranti: nel maggio 2008 tutti i dodici paesi sudamericani hanno firmato a Brasilia, il Trattato di Tlatelolco, istitutivo del’Unasur, il Parlamento dell’America del Sud modellato sull’esempio dell’Unione Europea (avrà una sua moneta, un inno, una bandiera e una libera circolazione delle persone). Inoltre, “uno studio su 323 campagne di resistenza civile condotte contro governi di ogni genere – sia democratici che autoritari – dal 1900 al 2006, ha dimostrato che le strategie pacifiche hanno avuto successo nel doppio dei casi rispetto a quelle di tipo violento: 53 contro 26%” (Arlacchi, p. 38).

Quindi si può individuare un progressione tramite lenti processi di apprendimento e temporanee regressioni, tipiche di quell’animale poco razionale e molto emozionale descritto dal filosofo Kant. Per fortuna, il graduale passaggio del potere politico dai re e dittatori, ai capi eletti periodicamente dai cittadini, diminuisce notevolmente i rischi di conflitti armati: “niente sarà più naturale della loro cautela a imbarcarsi in un’intrapresa così scadente, decretando su se stessi tutte le calamità della guerra. E queste saranno: l’onere di combattere, l’onere di pagare di tasca propria i costi… e di farsi carico di un pesante debito nazionale che renderà più amara la pace stessa e che mai si estinguerà se le guerre continueranno nel futuro” (Kant). Di fatto la mancanza di dollari e i debiti accumulati sta facendo passare la voglia di fare la guerra addirittura agli specialisti del settore: gli americani. L’unico settore industriale statunitense che macina utili è quello militare e c’è da preoccuparsi, ma basterebbe accontentarsi: le armi si possono produrre e usare solo nei poligoni di tiro tanto per tenersi in forma in caso di emergenza… Ma perché continuare a fare la fatica di fare una guerra per far arricchire i soliti multimiliardari? E voi multimiliardari non potete pensare a farvi una partita a golf in più invece di recitare la parte degli psicopatici criminali?

E’ inoltre molto positivo il fatto che “la strategia di ascesa della Cina a nuova potenza egemone si svolga sul terreno della crescita economica e della tessitura di relazioni internazionali pacifiche” (Arlacchi). Questa evoluzione potrebbe portare a un direttorio mondiale Usa, Europa, Russia, Cina, India e Brasile. Un altro scenario possibile è l’unione a medio termine dell’Europa con la Russia e la relativa nascita dell’Unione Euroasiatica.

Comunque, data l’attuale crisi economica sistemica mondiale e i sei miliardi di abitanti con prospettive generalizzate di disoccupazione, l‘unica vera soluzione radicale per prevenire delle crisi violente nei prossimi vent’anni, è la stabilizzazione delle popolazioni umane che può essere portata avanti solo dall’Onu, attraverso la riduzione forzata della procreazione delle donne (si dovrebbe impedire di avere più di due figli utilizzando gli strumenti della scuola obbligatoria per le donne fino ai 16 anni, l’educazione, i profilattici gratuiti, gli impianti ormonali sottopelle, la spirale e la legature delle tube). Attraverso l’istruzione obbligatoria si limiterebbe pure il matrimonio precoce mediante la compravendita delle donne. E poi molti guai nascono anche perché non si considera mai come azione di aggressività indiretta il “conquistare un territorio” con l’eccessiva “produzione” di bambini e ragazzi (destinati alla disoccupazione e spesso anche alla violenza) come ha fatto la popolazione albanese in Kosovo, o come sta facendo la popolazione palestinese e in parte anche quella israeliana (che utilizza anche lo “strumento dell’importazione” di ebrei da tutto il mondo), con il risultato controproducente che ci sarà meno spazio per tutti e più occasioni di conflitti di grande entità. Se pensiamo poi a quello che accade in tutti gli ecosistemi si può constatare che in tutte le specie animali ben oltre il 40 o il 60 % dei nuovi nati vengono eliminati dai predatori, mentre gli esseri umani sono l’unica specie vivente che non ha nemmeno una classe di predatori in grado di contenere la popolazione: è per questo che gli unici limitatori degli esseri umani sono le malattie (ormai sotto controllo medico), le carestie e le guerre (l’uomo è quindi l’unico “predatore” dell’uomo).

E forse già in questo 2009 molti capi di governo dovranno affrontare l’illiceità morale e legale di considerare la legge di mercato come determinante nella scelta della distribuzione delle risorse nelle carestie e nei periodi di crisi economica: “una economia di radicale “laissez-faire” equivarrebbe a uno stato totalitario, che tratta ogni bene sociale come una merce” (Charles Kindleberger, premio Nobel). E lo stato italiano è attualmente su questa strada, dato che ha deciso la privatizzazione delle società di gestione dell’acqua…

P.S. Consiglio vivamente a tutti di trovare il tempo per guardarsi il documentario di Robert MacNamara “La nebbia della guerra. Undici lezioni di vita”. Infine vi segnalo un antico proverbio africano: “Il momento migliore per piantare un albero è vent’anni fa. Il secondo momento migliore è adesso”.

 

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