Mi presento

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Benvenuti nel mio sito. Qui potete farvi un’idea di chi sono, e trovare notizie e documenti sulle mie opere e sui miei giorni.

Pino ArlacchiNon sono una persona complicata. La mia vita pubblica ruota intorno a due cose: il tentativo di capire ciò che mi circonda, da sociologo, e il tentativo di costruire un mondo più decente, da intellettuale e militante politico.

Continuo perciò a star dentro la sfida messa in luce dal detto di Pirandello  che “la vita o la si vive o la si scrive”. Ho goduto finora del raro privilegio di passare periodi nei quali ho solo “vissuto” la vita, senza avere il tempo di scriverla né di pensarla, come accade di regola agli uomini d'azione. E periodi nei quali mi sono limitato a “scrivere” la vita, osservando le azioni altrui e riflettendo sui miei comportamenti passati.

Un fisico mancato

Non sono un intellettuale puro. Sono stato costretto a diventare un uomo d’azione da quelle che vengono chiamate le circostanze della vita. Alla fine degli anni ’70 ero un giovane docente di sociologia all’Università della Calabria, e nel mio futuro non vedevo né la politica né l’attività antimafia che mi ha poi reso noto.

Non ero estraneo, a  dire il vero, né all’una né all’altra. Mi ero laureato a Trento ed ero perciò figlio di una cultura dell’impegno, quella del ’68. Ero un sessantottino DOC, e conoscevo bene la ‘ndrangheta perché ero nato e vissuto fino a 18 anni nella sua capitale, Gioia Tauro.

Ma la mia vocazione era di tipo scientifico. La mia passione erano le scienze naturali. Trascorrevo il mio tempo, da ragazzo, a collezionare piante e insetti, studiare il mare, costruire radio, aerei e perfino piccoli missili. Volevo studiare fisica all’Università, e ricordo bene la faccia desolata di mio padre quando gli comunicai che mi sarei iscritto in sociologia, e a Trento per giunta.

Mio padre era allora sindaco di Gioia Tauro, e la sua carriera politica terminò nel 1969, dopo una tentata strage della mia famiglia. Mio padre era un uomo tutto d’un pezzo, un cattolico praticante e un antifascista che aveva trascorso quasi due anni in un campo di prigionia nazista perché si era rifiutato, da ufficiale dell’esercito italiano, di aderire alla Repubblica di Salò. Era stato catturato dai tedeschi dopo l' 8 settembre e deportato in Germania assieme a  migliaia di altri soldati. Era riuscito a sopravvivere, ed era tornato a casa con un intenso odio per le armi e per le guerre. Sono cresciuto perciò in una casa priva di un arma da fuoco in un paese nel quale perfino i preti giravano armati. Il prof. Antonino Arlacchi considerava la mafia un residuo di ignoranza e di barbarie. Disprezzava gli uomini d'onore, li ridicolizzava mimando il loro traballante italiano, e non consentiva loro di mettere piede nelle faccende dell’amministrazione comunale.

La campagna elettorale era stata molto dura, e la mafia si era schierata in forze contro mio padre. La cosca che dominava, e ancora domina, Gioia Tauro mise una bomba nel garage di casa mia, che andò semidistrutta.  I miei sopravvissero perché dormivano dall’altra parte dell’edificio, ma il segnale fu troppo forte per un maestro elementare con quattro figli giovani.

Si capisce che non avessi molta voglia, da neo-laureato e ricercatore universitario, di occuparmi di mafia. Mi ero laureato con una tesi di sociologia storica, sul Mezzogiorno postbellico. Il mio primo studio importante, pubblicato nel 1980 dal Mulino in Italia e poi da Cambridge University Press nel Regno Unito, riguardava il sottosviluppo. La Calabria era solo un argomento di indagine. Nel titolo del volume, segno vagamente premonitore, c’era sì la mafia – il libro si chiamava Mafia, contadini e latifondo nella Calabria tradizionale. Le strutture elementari del sottosviluppo - ma il tema non occupava più di una decina di pagine.

Sono molto affezionato a quello studio. L’ho scritto che avevo 27 anni. Il testo attirò l' attenzione del grande storico Eric Hobsbawm, che lo consigliò alla Cambridge University Press per la pubblicazione. Solo adesso, nel 2009, con la pubblicazione dell’Inganno e la paura, sono riuscito a raggiungere di nuovo la profondità analitica di quel lavoro, che è diventato un testo adottato nei corsi di antropologia e sociologia delle Università anglosassoni.

La mano invisibile

Come sono finito, allora, a studiare la mafia? Per caso. Un caso che mi ha riportato dentro un argomento per me sgradevole, traumatico, e che è rimasto tale per il resto della mia vita. Un caso che sfiora la necessità perché il tema della mafia è stato per me come una mano invisibile che mi ha reso precocemente prigioniero, riportandomi dentro il suo spazio ogni volta che ho tentato di allontanarmene.

Il caso in questione fu l’influenza che colpì il direttore del mio dipartimento alla vigilia di un incontro preparatorio di un evento sulla ‘ndrangheta promosso dalla Regione Calabria. Mi fu chiesto di sostituire il direttore, e mi trovai ad impegnare il dipartimento in una specie di “fact finding mission” sulla mafia. Poiché il tema, in università, non interessava a nessuno, la mia incauta offerta di collaborazione alla Regione venne punita  affibbiandomi il compito di condurre l’inchiesta sul campo.

Era il 1977. L’idea prevalente nei media, nella politica e nell’accademia era che la mafia fosse ormai un anacronismo moribondo, liquidato dalla grande trasformazione postbellica della società italiana, e diventato semplice gangsterismo. L’attenzione pubblica era concentrata sulla lotta al terrorismo, e solo i sequestri di persona tenevano viva un po’di attenzione sulla violenza organizzata.

Mandai in giro per la Calabria un gruppetto di studenti a fare delle interviste a testimone privilegiato, e da queste scaturirono cose sorprendenti: la mafia era tutt’altro che scomparsa. Non solo era viva e vegeta, ma aveva approfittato della disattenzione generale nei suoi confronti per cambiare pelle e fare un micidiale salto di qualità verso l’imprenditorialità e verso il mercato. Era diventata una mafia imprenditrice.

Non potevo, a questo punto, non andare avanti, non ampliare e approfondire. L’argomento non mi piaceva, ma la scoperta era troppo grossa per lasciarla perdere. Nel 1978 scrissi un saggio che uscì l’anno dopo sulla New Left Review, e in versione più ampia nel 1980 sulla Rassegna italiana di sociologia. Avevo vinto intanto una borsa di studio della Ford Foundation che mi consentì di trascorrere il 1979 a New York, dove studiai Cosa Nostra americana. Quell' anno fui invitato ad Harvard, al Center for European Studies diretto da Peter Berger, a tenere un seminario sulla mia ricerca calabrese. La prima reazione di mio padre alla notizia dell' invito fu di incredulità, seguita da un moto di emozione messo subito sotto controllo. Il professore Arlacchi non era tipo da autocritica.  Era  un uomo burbero e distante, che non approvò mai fino in fondo nè la mia "deriva" sociologica, nè il mio impegno politico a sinistra. Fu solo la mia nomina all' ONU (avevo ormai 46 anni e lui quasi 80) che lo obbligò ad ammettere che avevo fatto bene a seguire la mia strada.

Al mio rientro in Italia creai un gruppo di ricerca misto, con una serie di magistrati, giornalisti ed uomini politici calabresi e siciliani disposti a collaborare con l’università. Il tema era la mafia. Quella siciliana, quella calabrese, e quel po’che si poteva intuire ci fosse all’estero.

Nel frattempo, la questione mafiosa stava uscendo dalla marginalità ed iniziava a destare allarme su scala nazionale. Nel giro di un biennio, tra il 1979 e l’81, erano state uccise da Cosa Nostra alcune tra le più alte autorità siciliane, tra cui lo stesso presidente in carica della Regione. Tutte queste persone erano state assassinate a Palermo, in pieno centro cittadino e in pieno giorno, davanti a decine di testimoni. Ognuno di questi omicidi aveva suscitato ampi clamori della grande stampa e solenni promesse di giustizia e di impegno antimafia da parte del governo. Nessuno di questi stessi omicidi era stato però seguito dalla benché minima misura di legge o dalla più modesta azione antimafia da parte dell’autorità centrale. L’immobilismo del governo era totale, e sconcertante.

Tra i diversi progetti di legge contro la mafia giacenti in Parlamento all’inizio del 1982, ne esisteva uno, presentato due anni prima dal gruppo comunista alla Camera dei deputati, il cui primo firmatario era un parlamentare prestigioso, l’on. Pio La Torre: uno dei protagonisti della lotta contro Cosa Nostra intrapresa dalla sinistra siciliana fin dall’immediato dopoguerra.

Il progetto La Torre faceva propria l’analisi del fenomeno mafioso da me esposta nel saggio del 1978, e trasformava alcune delle sue categorie in altrettanti articoli di legge. L’oggetto del lodo La Torre era l’impresa mafiosa con  i suoi devastanti vantaggi competitivi rispetto all’impresa “normale”, e le norme in esso contenute erano rivolte a colpire i meccanismi dell’accumulazione violenta del capitale.

La mattina del 30 aprile 1982 Pio La Torre veniva ucciso insieme al suo autista in una qualunque strada di Palermo. Ampi clamori della grande stampa, solenni promesse di giustizia e di impegno antimafia da parte del governo, che decise però stavolta di inviare in Sicilia il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, definito “la punta di diamante della lotta contro il terrorismo in Italia”.

Dalla Chiesa venne nominato prefetto, con la formale promessa di un pronto conferimento di poteri straordinari contro la mafia. Quattro mesi più tardi, la sera del 3 settembre 1982, il generale Dalla Chiesa – ancora senza poteri straordinari e senza scorta – veniva ucciso assieme alla moglie in una qualunque strada di Palermo. Una settimana dopo, il Parlamento italiano approvava una legge antimafia molto simile a quella proposta da Pio La Torre. Il suo fulcro era il sequestro dei beni di provenienza illecita, l’abolizione del segreto bancario per le indagini criminali e l’introduzione del reato di associazione mafiosa.

Gli stessi temi che 18 anni dopo, da vicesegretario generale dell’ONU, sarei riuscito a mettere al centro del Trattato di Palermo, il primo contro le mafie internazionali, firmato da 124 Paesi ed oggi in vigore.

La mafia imprenditrice e Giovanni Falcone

L’assassinio Dalla Chiesa fu il punto di svolta dei sentimenti antimafia dell’Italia, ed influenzò molto anche la mia vita personale. I magistrati che avevo coinvolto nel gruppo di lavoro misto erano una decina, ma tra essi c’erano nomi come Rocco Chinnici, il capo dell’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo ucciso nel 1983, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Anche Pio la Torre aveva partecipato a vari nostri incontri. Il mio nome rimbalzò sui media e cominciò a diventare ingombrante. Arrivarono le prime minacce, non solo a me ma anche alla mia famiglia di origine, che viveva a Gioia Tauro e non si era più ripresa dal trauma della bomba del 1969.

Nel 1983 pubblicai La Mafia imprenditrice. L’etica mafiosa e lo spirito del capitalismo. Il libro ha avuto una storia singolare, diventando rapidamente un classico e venendo tradotto in varie lingue. Può sembrare strano, ma nonostante il successo incontrato dai miei studi sulla criminalità e l’influenza che avevo iniziato ad avere nel discorso pubblico, non riuscivo ancora a vedermi nelle vesti di un uomo d’azione. La politica attiva non mi attraeva, ed avevo già rifiutato, nel 1979, quando avevo 28 anni, una candidatura al Parlamento come indipendente di sinistra offertami da Ugo Pecchioli, un grande dirigente del PCI. Ed ho continuato ad evitare l’impegno politico diretto fino alle stragi del 1992 e l’incriminazione di Giulio Andreotti, l' anno dopo, per complicità con la mafia. Sono entrato in Parlamento solo nel 1994, quando avevo già 43 anni, e quando era ormai impossibile sottrarsi alla prima linea.

Non intendevo fare politica per un motivo fondamentale: avevo un programma di ricerca scientifica nella testa. Ritenevo scienza e politica incompatibili. Ero e sono un sociologo weberiano, che non crede all’illusione di Marx che sia possibile fare politica in modo scientifico e fare scienza in modo politico. O l’una o l’altra. O si pensa o si agisce.

L’unica concessione che la mia fede weberiana (e la mia testardaggine calabra) avevano fatto al successo dei miei studi era il cambiamento del loro oggetto. Era evidente che dovevo abbandonare la sociologia dello sviluppo, e che ero condannato a restare nel pianeta mafia per lungo tempo.

Ma ero convinto che ciò dovesse accadere alle mie condizioni. Vale a dire che mi sarei occupato di mafia da sociologo generale, da scienziato sociale a tutto campo, e non da criminologo o saggista, e tantomeno da uomo politico o attivista. Niente è stato più lontano dalla mia mentalità che l’idea di diventare un “professionista dell’antimafia”, secondo la meschina etichetta coniata in seguito da Leonardo Sciascia contro di noi.

Cosa Nostra, in ogni caso, aveva capito che facevo già abbastanza danni da consigliere del Principe, ed intensificò le sue attenzioni al sottoscritto. Dopo la pubblicazione de La mafia imprenditrice e dopo il delitto del mio fraterno amico Chinnici, mi apparve chiaro che dovevo alleggerire la pressione. Conoscevo meglio il modo di ragionare dei mafiosi, ed ero in grado di calcolare, entro certi limiti, i rischi che correvo. Dovevo lasciare la Calabria ed evitare che il mio impegno antimafia fosse percepito dalle cosche calabresi, e gioiesi, come una sfida troppo diretta, personale. Il mafioso non concepisce avversari disinteressati. Considera i suoi oppositori come dei concorrenti, come dei rivali che vogliono prendergli il posto. O come dei prepotenti che vogliono mettere in piedi una sfida di potere personale contro di lui. Quando l’uomo d’onore si convince che è così,  può diventare ancora più aggressivo, e il suo uso della violenza, normalmente controllato, può divenire estremo, irrazionale.

Pino Arlacchi con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino (foto ©Franco Zecchin)Sia Chinnici prima di morire che Giovanni Falcone e Paolo Borsellino mi consigliarono di andarmene dalla Calabria. Non ero magistrato né poliziotto. Non intendevo entrare nel circuito dell’impegno politico e della vita sotto scorta. Non aveva senso, di conseguenza, correre rischi fuori misura. Il rischio calcolato è una cosa. La ricerca del danno quasi certo è un'altra cosa, non molto intelligente.

Lasciare la Calabria non era affatto, tralaltro, una cattiva idea. A 33 anni, dopo il soggiorno newyorkese di qualche tempo prima, era il momento  di riprendere a vedere il mondo. L’anno dopo,1984, mi misi in congedo dall’Università della Calabria, mi trasferii a Roma e divenni consulente della Commissione antimafia presieduta da Abdon Alinovi. Iniziai anche a collaborare con l’Ufficio ONU di Vienna assieme a Giovanni Falcone, ed ho un vivido ricordo della prima volta in cui ci trovammo, tutti e due, a vagheggiare un Trattato mondiale contro la mafia. Fu nel corso di un seminario sulla confisca dei beni di origine illecita durante il quale arrivò la notizia dell’assassinio di Indira Gandhi.

Nel 1987 trascorsi un altro anno a New York come visiting professor della Columbia University e divenni professore associato a Firenze, alla Facoltà di Scienze politiche, continuando a lavorare a stretto contatto con i giudici di Palermo. Falcone era diventato nel frattempo una stella di prima grandezza nell’opinione pubblica, ma c’erano ombre nel suo successo: il mondo politico diffidava di lui e l’invidia dei suoi colleghi magistrati non faceva che montare  giorno dopo giorno.

Neppure la vittoria di Falcone al maxi-processo di Palermo del 1986-87  - la maggiore impresa antimafia della storia italiana, conclusasi con la condanna all’ergastolo del gotha di Cosa Nostra siciliana, un colpo dal quale questa non è più riuscita sollevarsi – fu sufficiente a convincere i colleghi di Falcone che il suo talento professionale era semplicemente irraggiungibile e che era meglio mettersi l’anima in pace.

Tra il 1987 e il 1991 ho lavorato a varie ricerche sulla criminalità e sulla droga, ed ho viaggiato molto. In questo periodo sono diventato Presidente dell’Associazione internazionale per lo studio della criminalità organizzata, ed ho costruito, assieme a Roger Lewis, uno straordinario collega inglese, un sistema di rilevazione del fatturato e dei profitti del mercato degli stupefacenti del quale vado molto orgoglioso. Questo metodo viene applicato oggi dagli studiosi di tutto il mondo, è rimasto l’unico nel suo genere, ed è una memoria vivente dell’ingegno acuto e dissacrante di Roger.

Ogni volta che passo da Verona, rivedo Roger al lavoro. Roger Lewis, sociologo da strada e avanzo di '68, capace di infiltrarsi tra i consumatori di droga di mezzo pianeta e dividere con loro tutto: gioie, dolori e talvolta anche qualcosaltro. Mi sembra di vederlo, Roger, impegnato in animate discussioni su qualità e prezzi della “roba” con i loquaci tossicodipendenti scaligeri.  Se n’è andato in punta di piedi, Roger, poco tempo fa. Assieme a lui ho pubblicato nel 1990 col Mulino un testo poco noto al grande pubblico, ma che non ha perso freschezza col tempo: Imprenditorialità illecita e droga: il mercato dell’eroina a Verona.

Assieme a Nando Dalla Chiesa, sociologo anche lui e figlio del generale assassinato, ho scritto nel 1987 un libro, La palude e la città, dal sottotitolo per quei tempi molto audace: Si può sconfiggere la mafia. L’editore voleva mettere un punto interrogativo alla fine, ma decidemmo di toglierlo perché eravamo convinti, Nando ed io, che il giorno della fine di Cosa Nostra sarebbe giunto presto. Eravamo arrivati ad individuare la sua testa politica suprema, quella che le aveva consentito di sopravvivere e prosperare per decenni. Si profilava ormai il momento della resa dei conti.

Nando aveva pubblicato nel 1984 un atto d’accusa sulla morte del padre. In esso adombrava senza mezzi termini una regìa politica dell’assassinio, ed un notissimo uomo di governo come mandante. Il volume si chiamava Delitto imperfetto. Non conteneva prove schiaccianti sul delitto. Ma era pieno di indizi ed intuizioni estremamente penetranti. Il caso di Nando era sorprendente. Il suo dolore e il suo risentimento verso chi gli aveva tolto il padre, invece di offuscare il suo intelletto l’avevano reso incredibilmente lucido, affilato come la spada di un guerriero antico. Solo un anno dopo, Tommaso Buscetta avrebbe confermato a Falcone l’identità del mandante.  Lo stesso uomo politico che Nando aveva inchiodato nel suo libro.

La DIA, Capaci, Buscetta e Calderone

Nel 1991 anche Giovanni Falcone aveva lasciato la sua terra di origine ed era venuto a Roma. La situazione a Palermo era divenuta per lui insostenibile. Dopo il maxiprocesso la sua impresa investigativa era proseguita a passi da gigante. Le rivelazioni dei grandi pentiti di mafia  - Buscetta, Calderone, Contorno, Mannoia, Mutolo ed altri – gli avevano fornito la traccia su cui egli aveva dipinto, inchiesta dopo inchiesta, l’intero affresco della potenza mafiosa. Il suo comando sulla borghesia delle professioni. Il suo dominio sulle imprese. Il suo patto scellerato con la politica siciliana e nazionale.

Ma le inchieste di Falcone erano andate troppo avanti, Si erano spinte in una terra di nessuno dove si verificavano fatti strani, scomodi e politically incorrect. Anche la sinistra iniziava a temere i suoi provvedimenti giudiziari, e le conclusioni della sua indagine sull’omicidio La Torre non piacquero a tanti.

Le reazioni divenivano via via più intense. Non solo Cosa Nostra, ma buona parte della politica e quasi l’intera magistratura associata consideravano ormai Giovanni Falcone - pur famosissimo, stimato ed amato dalla gente di un intero paese -  un uomo da bruciare. Nel 1989 era sopravvissuto per un soffio all’attentato presso la sua villa al mare, all’ Addaura.  Mi precipitai in Sicilia, e la prima domanda che gli rivolsi, a bruciapelo, fu: "Chi è stato?" . "Ti sembrerà letterario, e puoi anche sorridere. Ma si tratta della prima persona che mi ha telefonato dopo l' esplosione. Ed è per questo che ho sentito un brivido corrermi giù lungo la schiena ". Fu la sua risposta. Giovanni si riferiva all' abitudine dei capimafia di essere in prima fila ai funerali della loro vittima, e di essere i primi a mostrare cordoglio alle vedove ed ai figli. Anche sugli esecutori aveva le idee molto chiare. Erano i soliti delinquenti che inquinavano buona parte del SISDE, il servizio di sicurezza interna dello Stato.

Falcone finì con l’accettare l’offerta del ministro Martelli di diventare direttore degli affari penali del ministero della Giustizia. Si trasferì a Roma, e trascorremmo assieme uno straordinario 1991. In quello stesso anno, infatti, il ministro dell’Interno, Vincenzo Scotti, mi aveva incaricato di progettare una agenzia specializzata in indagini antimafia, la Direzione Investigativa Antimafia, la DIA, che venne istituita a tempo di record in autunno. Giovanni creò contemporaneamente la Direzione Nazionale Antimafia, la cosiddetta Superprocura, l’interfaccia giudiziaria della DIA.

Mentre il mio progetto passò senza grandi problemi, la Superprocura fu fonte di ulteriori amarezze per Falcone. Ci fu perfino uno sciopero dell’Associazione nazionale dei magistrati contro il disegno di legge della DNA. L’accusa non era da poco: attentato alla Costituzione. Secondo i suoi colleghi, Falcone voleva centralizzare l’iniziativa penale nelle sue mani, subordinandola al potere politico e minando così la divisione dei poteri dello stato.

Nella primavera del 1991 non sapevo quasi come dividermi. Stavo mettendo in piedi la DIA, aiutavo Falcone nel progetto della Superprocura e cercavo nello stesso tempo di sfruttare un privilegio eccezionale che mi era appena caduto sulla testa.

Si trattava della massima opportunità che può capitare ad uno studioso della criminalità.  Il capo della polizia, Vincenzo Parisi, mi aveva consentito di incontrare in gran segreto un esponente di primo piano della mafia, un pentito che collaborava con il giudice Falcone, di conversare con lui nella massima libertà intorno ad ogni genere di argomenti, e di registrare il contenuto degli incontri.

Parisi era un mio estimatore, ma era soprattutto un eccelso uomo di potere, che aveva ben intuito da quale parte tirava il vento. La mia gratitudine per gli incontri con Antonino Calderone avrebbe accresciuto le sue credenziali presso la sinistra, che si avvicinava al governo del paese.  Parisi era al corrente della mia influenza sul segretario del PDS, Achille Occhetto, e non perdeva occasione per lanciargli mio tramite segnali di intesa.

Il risultato dei miei colloqui con Calderone fu il volume Gli uomini del disonore, il primo resoconto diretto delle “opere e dei giorni” di un capomafia siciliano. Il libro divenne subito un bestseller. Fu tradotto in varie lingue, e vendette oltre 400mila copie. A quel tempo non avevo ancora letto il capolavoro della Yourcenar, Le memorie di Adriano, dove l’autrice aveva fatto parlare in prima persona un personaggio storico, ma avevo applicato la sua stessa tecnica, che i lettori trovarono efficace.

Detto ciò, devo aggiungere che non amo affatto questo libro. Esso è per me, ancora oggi, fonte di memorie tra le più dolorose. Cerco di spiegarmi. Per una serie di circostanze, la sua pubblicazione slittò fino al maggio 1992. Doveva essere presentato a Roma da Giovanni Falcone. Ho davanti agli occhi il biglietto che mi scrisse Giovanni:

Caro Pino, ho appena ricevuto il tuo bel libro, e te ne ringrazio vivamente. Sono sicuro che sarà ennesima conferma delle tue ben note qualità. Con viva amicizia. Giovanni Falcone.

La data è il 18 maggio. Cinque giorni dopo Giovanni non c’era più, massacrato a Capaci con moglie e scorta. Non potei neppure andare al suo funerale perché mi fu proibito dalla polizia. Il rischio sarebbe stato fuori misura, e non avevano abbastanza mezzi per proteggermi. In fin dei conti, ero solo un privato cittadino, la cui sicurezza non poteva impegnare troppe risorse. Con aria contrariata, Parisi mi disse che era meglio lasciar perdere. Se fossi andato a Palermo, le misure di protezione necessarie per evitare che Cosa Nostra mi facesse secco sul posto avrebbero fatto ingelosire i potenti affluiti in massa al funerale.

Mi è tornato in mente, quell’episodio, 9 anni più tardi, alle Nazioni Unite, mentre mi trovavo nell’ufficio del Segretario Generale. C’era appena stato l’11 settembre 2001, e volevano darmi l’incarico di dirigere gli sforzi dell’ONU contro il terrorismo senza garantirmi, contemporaneamente, alcuna seria protezione. Sollevai il problema del rischio abnorme cui sarei stato esposto. La risposta fu che le mie misure di sicurezza non avrebbero potuto superare, per ragioni di protocollo, quelle di Kofi Annan. E poi, uno dei massimi dirigenti dell' ONU, lo sapevano tutti, non aveva bisogno di speciali difese. Era protetto dalla nostra bandiera e dal paese che lo ospitava.

Rifiutai la proposta, ed ebbi salva la vita, perché neanche due anni dopo il mio collega Sergio De Mello ed altri funzionari ONU sarebbero saltati in aria, indifesi, a Baghdad. Si erano fatti proteggere dalle guardie di Saddam Hussein.

Ma torniamo all’Italia del 1992. Ricordo che avevo deciso di annullare la presentazione del libro, prevista per il 28 maggio. Ero a pezzi, mi sentivo con le ossa fracassate. Ebbi un momento di completo scoramento. Scrissi un editoriale su “La Repubblica” dicendo che dopo la perdita di Falcone non c’era ormai più nulla da fare. La mafia aveva abbattuto l’albero più alto della foresta.

Fui costretto a ritornare sulla mia decisione per l’insistenza di Vincenzo Parisi e di Paolo Borsellino. Dissentivano entrambi dalla posizione sconfortata che avevo preso: «Non dobbiamo darla vinta a Cosa Nostra,» - mi rimproverarono. «Non possiamo consentirle di alterare i nostri programmi. Non mostriamoci deboli. Abbiamo delle responsabilità verso tanta gente che ci rispetta e ci ammira. Non sei più solo un professore, e non puoi più  fare quello che vuoi.»

Paolo si offrì di venire appositamente a Roma per presentare il volume al posto di Giovanni. E così avvenne. Ma anche Borsellino scomparve neanche due mesi dopo, inghiottito dalla Bestia in via D' Amelio assieme ai ragazzi della sua scorta.

La situazione era in realtà precipitata sin dal marzo di quell’anno funesto, con l’omicidio di Salvo Lima, il proconsole siciliano di Giulio Andreotti. Cosa Nostra si era infuriata per l’imprevista conferma in Cassazione delle condanne del maxi-processo, ed aveva deciso di eliminare chiunque, amico o nemico, avesse giocato un ruolo nella vicenda. Alla notizia del delitto Lima, Giovanni Falcone disse a me e ad altri  che il prossimo sarebbe stato lui stesso. " Lo capite o no che sono un morto che cammina?" ,sbottò una sera Giovanni alla fine di una cena tristissima, durante la quale avevamo invano tentato di convincerlo che la sua partita con la Bestia non stava volgendo al termine. Non posso rievocare quell' episodio senza venire ogni volta trafitto dal lampo di infinita malinconia che uscì dagli occhi di Giovanni Falcone nel pronunciare quelle parole.

La strage di Capaci e quella di Via d’Amelio hanno segnato la mia vita. Fino ad allora, come ho detto, il mio impegno contro la mafia era consistito nel fabbricare cartucce per i fucili altrui. Adesso era venuto il momento di imbracciare direttamente il fucile. Non ero più, non potevo più essere solo un professore.

All’interno della DIA, mi concentrai sull’intelligence tattico e strategico. Creai il sistema di classificazione dei gruppi mafiosi italiani, le famose “mappe” della mafia usate oggi dalle forze dell’ordine. Fino allora non c’era modo di conoscere quanti fossero i mafiosi, dove fossero dislocate le cosche, in quali settori di attività fossero presenti, da chi fossero protette. Scrissi la relazione sull' attività della DIA che il ministro Scotti presentò in Parlamento, e mi tolsi così la soddisfazione di infrangere un tabù. Impressi per la prima volta in un documento del governo italiano l' affermazione che mafia e politica sono legate da uno stretto e costante rapporto. Oggi può sembrare incredibile, ma prima di allora era proibito perfino accennare all' esistenza di questo patto scellerato. Il divieto valeva per tutti gli organi dell' esecutivo, e veniva fatto rigorosamente rispettare anche nei programmi della RAI.

Lavorai alla definizione degli obiettivi da colpire in via prioritaria con l’attività investigativa, e collaborai con gioia alla stretta poliziesca, carceraria e giudiziaria che seguì la strage di Via d’Amelio, e che arrivò molto vicino, tra l’estate 1992 e la primavera 1994, ad annientare Cosa Nostra.  Mi resi conto allora che la vendetta può essere un sentimento primitivo, ma è il nucleo fondante della giustizia. E’parte della nostra dignità e del nostro impegno per la vita.

Per un momento ci illudemmo di avere portato a termine la missione di Falcone. Giovanni aveva distrutto il mito dell’invincibilità della mafia, e noi ora le stavamo dando il colpo di grazia. Senza eccessi né violazioni di diritti, con l' anima in pace, stavamo facendo giustizia. Non sentivamo di odiare nessuno. Provavamo solo un immenso, sereno senso di sollievo. Come quando ci si libera da una malattia o da un pericolo mortale.

E’per questo che oggi mi trovo a chiedermi, di tanto in tanto, perché quella volta non siamo riusciti ad andare fino in fondo. E so che la stessa domanda se la pongono talvolta anche i mafiosi. Ma questa è un’altra storia.

Nel 1993 feci un ulteriore passo avanti nella conoscenza della Bestia. Il capo della polizia mi chiese se volevo parlare con Tommaso Buscetta, previa autorizzazione dell’apposita Commissione ministeriale sui collaboratori di giustizia. A luglio mi trovavo già a Miami, dove viveva, sotto gli occhi vigili dell’FBI, il sig. Roberto Ferrara, alias Masino Buscetta, il primo e il massimo dei pentiti di mafia. Ho incontrato Buscetta altre volte, fino alla primavera del 1994, ed anche dopo.

Nello stesso 1993 il governo Ciampi mi prese in considerazione per l' incarico di supervisore dei servizi di sicurezza italiani, ma non avevo alcuna fiducia nella possibilità di successo dell' impresa e mi tirai indietro. L' eventualità della mia nomina mise però in allarme un bel pò di spioni e imbroglioni, e qualche anno dopo, nel 1996, il giudice Davide Monti, che conduceva l' indagine su un gruppo di truffatori internazionali chiamata "Phoney Money", sequestrò un fax partito nel novembre '93 da un faccendiere italiano verso un suo compare americano. Nel fax si dava per imminente il mio incarico e si chiamava alla mobilitazione i difensori del mondo libero: un noto comunista stava per entrare nella stanza dei bottoni dell' Occidente. Il faccendiere fu arrestato per altre ragioni, e rimase un paio di anni in galera, fino a che Monti non perse l' inchiesta per effetto di una indegna persecuzione allestita dai soliti noti.

Il Parlamento italiano e l’ONU

Dagli incontri con Buscetta è nato Addio Cosa Nostra. La vita di Tommaso Buscetta. Ma è nata anche una amicizia sincera, che è durata fino alla sua scomparsa per malattia, nell’aprile del 2000. Tommaso Buscetta era un personaggio fuori del comune. In inglese si dice "larger than life", ed è un termine intraducibile. Buiscetta era l' esatto opposto dell' uomo d' onore medio. Quando li si conosce di persona, i mafiosi si rivelano una totale delusione. Sono gente mediocre, squallida, banale, miserabile, che riesce a diventare qualcosa grazie alla prepotenza, alla violenza, ed a una cultura della sopraffazione e della minaccia che fiorisce dove c'è la passività e l' indifferenza dei più. La migliore definizione che ho trovato del materiale umano della mafia è : piccoli uomini dentro grandi storie. Buscetta era invece un carattere shakespeariano, un uomo tormentato, passionale, estremo, capace di grandi slanci e di grandi violenze, ma generoso, tenero e leale fino all' inverosimile con le persone care. Senza Tommaso Buscetta non ci sarebbe stato il Giovanni Falcone che abbiamo conosciuto. E la mafia regnerebbe intoccata in tutto il paese.

Buscetta e Falcone. Quasi due facce della stessa medaglia. Due destini incrociati, che ad un certo punto si sono intersecati con il mio, e quando i tempi saranno maturi sarà interessante andare al fondo di questo argomento.

Ho pubblicato Addio Cosa Nostra quando ero appena entrato in Parlamento come deputato per la coalizione dei Progressisti di Achille Occhetto, dopo le elezioni dell' aprile 1994 e la nostra sconfitta ad opera di Berlusconi.  Sono rimasto in Parlamento poco più di tre anni, fino all’autunno del 1997. Non è stata un’esperienza esaltante. Mani pulite era finita, e noi dell’antimafia cominciavamo ad essere considerati un peso da una certa parte della sinistra. La seconda etichetta che mi toccò sopportare dopo quella di “professionista dell’antimafia” fu quella di “giustizialista”, di uno che va per le spicce e dà sempre ragione ai magistrati, anche quando incarcerano innocenti ed abusano dei loro poteri. Nel maggio del '94, inoltre, la situazione della mia sicurezza personale peggiorò improvvisamente. Nel corso di un processo,Totò Riina si proclamò perseguitato politico e fece i nomi dei suoi principali nemici. Si trattava di tre persone: Il Procuratore della Repubblica di Palermo, Giancarlo Caselli, l' ex-Presidente della Commissione Antimafia Luciano Violante, e "quel Pino Arlacchi che scrive libri". Tradotta nei codici di Cosa Nostra, quella dichiarazione era l' equivalente di una condanna a morte. Buscetta mi spiegò che il messaggio inviato da Riina al popolo delle cosche significava che potevo essere ucciso sul posto in qualunque momento da qualunque uomo d'onore nel quale mi fossi imbattuto. In questo caso, il mafioso non avrebbe dovuto chiedere al suo capofamiglia l' autorizzazione all' omicidio. L' unica altra dispensa valeva per i pentiti, i traditori della mafia.

Ci fu una forte reazione nel paese. Perfino il Presidente del Consiglio, Berlusconi, fu costretto ad esprimere la sua solidarietà a noi minacciati-condannati. Fui convocato in fretta e furia al Viminale. Parisi era allarmatissimo. Un pò perchè mi dava per morto ed aveva già calcolato gli sconvolgimenti che il mio probabile trapasso avrebbe provocato, ed aveva presentito la piega a lui non favorevole che gli eventi avrebbero preso. Ma Parisi era allarmato anche perchè gli dispiaceva l' idea di privarsi di una persona amica, leale, cui talvolta aveva affidato confidenze e segreti ingombranti.

Sta di fatto che le misure di sicurezza divennero durissime. Avevo già da qualche anno una scorta "leggera" di due uomini e un' auto blindata. Ma per i tre anni successivi, fino al mio arrivo al' ONU di Vienna, fui sorvegliato da un plotone di agenti della polizia di stato. I miei figli sono cresciuti in mezzo a sirene e fucili mitragliatori, ma per fortuna ai loro occhi è stato tutto un gioco, non diverso da quelli che vedevano in televisione. Per un certo periodo non ho potuto neppure volare su aerei di linea, ed ho usato molto poco la flotta dei Falcon della Presidenza del Consiglio cui Parisi mi aveva dato accesso. Ho volato raramente con gli aerei di stato perchè erano gestiti dai servizi segreti e Falcone e Borsellino ne avevano costantemente diffidato.

Dopo il mio insediamento all' ONU e fino al 2004 ho continuato ad essere protetto. Minacce, problemi e anche un tentativo di mandarmi al Creatore non sono mancati, ma non voglio farla lunga. Non sopporto la retorica di quelli che si lamentano sui media di avere perso la loro libertà, di non potere farsi una passeggiata o andare dalla mamma, al cinema o al ristorante per via della scorta. Non ho mai fatto la vittima. Non mi sono mai sentito una vittima, e non ho mai visto i miei amici più a rischio piagnucolare sulla spalla dei giornalisti per la loro privacy sacrificata. Sono stato 13 anni sotto scorta. Gli agenti a me assegnati sono stati sempre esemplari nel dividere con me i rischi cui li ho esposti. Alcuni di loro sono diventati amici di famiglia, che frequento ancora, e con i quali ci siamo pure, in certe circostanze, divertiti tantissimo. Come quando, nel 1999, ho attraversato l' Atlantico con la mia barca a vela e con l' equipaggio formato da due di loro.

Alla fine del 1996 fui clamorosamente messo da parte, all’ultimo minuto, dal mio partito per la nomina a presidente della Commissione Antimafia. Mi preferirono Ottaviano Del Turco, un ex-sindacalista arrestato poco tempo fa per corruzione. Si era in pieno dialogo tra maggioranza ed opposizione per arrivare alla agognata "Riforma Istituzionale" che avrebbe risolto i problemi più importanti del paese. Arlacchi all' Antimafia avrebbe disturbato i manovratori, per via della sua nota scarsa "affidabilità" (leggi fedeltà di partito). I due boss supremi del PDS, D' Alema e Veltroni, convennero che era meglio Del Turco.

Quando mi dimisi dal Senato, nell' agosto 1997, per andare all’ONU  su invito del segretario generale ero molto contento.

La mia storia successiva la trovate nel saggio "Dalla Calabria al centro dell’inferno", che fa parte della nuova edizione de "La Mafia Imprenditrice" uscita nel 2007, e che potete scaricare da questo sito. Notizie sulla mia infanzia in Calabria sono contenute nella prefazione che ho scritto nel marzo 2009 al volume di Aldo Alessio sui cento anni di storia della  Società dei Lavoratori del Mare di Gioia Tauro. La migliore fonte sul mio lavoro internazionale è l' Archivio del New York Times, un giornale che mi segue fin dal 1979, quando il suo corrispondente da Roma pubblicò la notizia che in una Università del profondo Sud c'era un giovane professore che aveva iniziato a studiare la mafia.

 

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