Trattativa Stato-mafia, il cinismo informativo

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Il sociologo Pino Arlacchi prova a inquadrare storicamente la vicenda che oggi coinvolge Giorgio Napolitano

Panorama.it, 25 ott. 2014

I pubblici ministeri della Procura di Palermo rilanciano l’ ennesimo documento di 21 anni fa sull’ennesima minaccia mafiosa di 21 anni fa all’ennesima alta autorità italiana. Il pm Di Matteo ha chiesto alla Corte del processo Stato-mafia di rivolgere domande a Napolitano su un rapporto del servizio segreto militare che nel 1993 riferiva del rischio di un attentato contro di lui, all’epoca presidente della Camera.

Rilevanza del documento? Zero. Esso può sembrare importante solo a chi ignora il contesto di quegli anni. Tra il 1991 e il 1994 non è quasi passata settimana senza che minacce, progetti veri e falsi di attentato, allarmi più o meno fondati, lettere anonime di ogni risma non venissero alla ribalta. La matrice era per lo più mafiosa. Ma c’erano anche i compagni di strada di Cosa Nostra che temevano di fare la sua stessa fine sotto i colpi di maglio dell’ offensiva giudiziaria. Ci sono stati anni nei quali si sono trovati sotto accusa più di 5mila soggetti distribuiti lungo tutto l’ arco della delinquenza.

L’ intero grande Parlamento del crimine era in subbuglio. Dagli incappucciati delle logge segrete ai boiardi di Stato corrotti, dai corleonesi ai riciclatori svizzeri, dai dirigenti infedeli dei servizi di sicurezza agli eversori della destra estrema fino ai faccendieri italo-americani, erano tutti attanagliati dal tipo di paura che si diffonde quando un’epoca tramonta e il peggio (lo Stato di diritto) si staglia sempre più netto all’ orizzonte. Questi delinquenti reagivano come animali feriti, attaccando e minacciando chiunque si trovasse a detenere una posizione di potere, senza distinguere tra amici e nemici.

Altro che trattativa. Non solo i capi di Cosa Nostra ma anche i signori dello strapotere più elevato avevano abbandonato l’antica prassi della manipolazione e della collusione in favore dello scontro frontale con le istituzioni dello Stato. Giornali, Procure, uffici di polizia erano perciò inondati, in quegli anni, di dossier, lettere e comunicati che prefiguravano sfracelli contro l’antimafia e Mani Pulite. Era il tempo dei “Corvi” che insinuavano dubbi sull’integrità degli inquirenti, spargevano veleni su persone oneste, e annunciavano sventure devastanti. Sotto forma di stragi e attentati. Solo pochi dei quali, per fortuna, eseguiti.

Trattativa o campagna di terrore mafioso? I segnali di quest’ ultima cominciarono già nel marzo 1992, con le dettagliate profezie inviate per lettera a Bettino Craxi da tale Salvatore Ammendolito, un doppiogiochista italo-americano inquisito da Falcone: la mafia siciliana si apprestava a “gettare il paese nel caos” come risposta ai metodi “rivoluzionari” e liberticidi introdotti dagli uomini dell’ antimafia, guidati da Giovanni Falcone, che avevano ormai fatto breccia nel governo.

Subito dopo Capaci, in una lettera indirizzata al CSM, il “consulente finanziario” Ammendolito affermava che “se la mia teoria è corretta, avremo altri attentati, e prestissimo, tanto a Palermo quanto a Roma”. E in una dichiarazione al settimanale “l’ Europeo” del 27 maggio ’92, lo stesso ribadiva che Capaci era solo l’inizio, che sarebbe seguito a ruota l’ assassinio di Borsellino, e che la mafia già da un anno stava “organizzando una guerra civile” per costringere lo Stato ad abbassare la guardia, ritirando tralaltro i decreti di carcerazione dura contro i capimafia.

I sostenitori della “trattativa” diranno a questo punto che sto dando loro ragione. Omettendo però il punto più essenziale. E cioè che lo Stato non trattò, tanto da obbligare i poteri illeciti a proseguire nella strategia del terrore fino a tutto l’anno successivo. Il terrore mafioso terminò perché le migliaia di arresti e condanne dopo il ’92 e fino ad oggi - sotto Berlusconi e senza Berlusconi - spezzarono le gambe alla mafia corleonese, costringendola a mutare ancora una volta strategia. E a cedere il passo a nuove forme di criminalità organizzata, questa volta a leadership politica.

Ho fatto questo excursus per aiutare a ricostruire il contesto più ampio in cui si sono svolti i fatti (e i tanti non-fatti) che sostanziano i processi in corso a Palermo e Caltanissetta. Senza tener conto del quadro articolato e turbolento dell’ Italia inizio ‘90, si capisce ben poco. E la confusione diventa pericolosa perché, a distanza di due decenni, si rischia di non essere in grado di pesare le cose. Episodi minori, come un banale rapporto confidenziale con un ex-capomafia stabilito da un ufficiale dei carabinieri che millantava di possedere un mandato a negoziare un armistizio con Cosa Nostra, vengono ingigantiti e messi sullo stesso piano di maxi-eventi come la guerra dello Stato alla mafia siciliana.

Tirare fuori dal cappello un brandello di informazione risalente a quasi una generazione addietro – un pezzetto di perizia, una agenda, un memoriale, una testimonianza, un rapporto di polizia o dei servizi di sicurezza- per poi sbatterlo in prima pagina facendolo passare per una rivelazione e montandoci sopra un romanzo a puntate , è perciò un esercizio di cinismo informativo. Che può portare fuori strada, però, anche il lettore meno disarmato.

La grancassa mediatica (sempre più svogliata in verità) che sta accompagnando la telenovela Stato-mafia e l’inutile deposizione di Napolitano al processo sono un esempio di cattiva informazione. A cosa serve se non a creare clamore e sospetti gratuiti il coinvolgere una persona che da presidente della Camera dell’ epoca non può avere niente di significativo da aggiungere a quanto già di pubblico dominio sull’ attività antimafia dello Stato? O forse i giudici sono interessati a conoscere un dato dalla granitica consistenza probatoria come lo “stato d’ animo” del suo consigliere D’ Ambrosio espresso in una lettera allo stesso Presidente?

 

 
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