L' Economist di oggi pubblica questa mia analisi sul perchè non c'è stato ancora in Italia un attentato terroristico grave.
Italy’s role in foreign wars
You put forward a couple of reasonable explanations for why Italy has not yet been struck by a serious terrorist attack (“Safe so far”, September 30th). But one unmentioned factor is Italy’s low profile during the recent wars in the Middle East. We never bombed the Syrians the way France did. The terrorist blowback, the number of Italian foreign jihadists and the resentment against Italy in the Middle East are, therefore, much more limited.
Moreover, you aired the view that the Mafia may have deterred the jihadists. There is no evidence to support this. Today’s Mafia lacks both the strength and the will to care about terrorism, because it is too busy searching for ways to survive in a largely hostile environment.
What is true is that the instruments we used to defeat Cosa Nostra turned out to be very effective in tracing and neutralising, so far, a significant number of terrorist cells.
Former UN undersecretary-general
di Pino Arlacchi
3 Ottobre 2017
Lo stragista di Las Vegas non viene da Marte, ma dalle viscere della società americana, troppo riluttante a mettere sotto controllo e svalutare la violenza. E troppo arrogante per imparare dalla vecchia Europa il mestiere di vivere meglio.
Vivere, cioè, riducendo sempre più la violenza nei rapporti umani.
Gli Stati Uniti sono una società avanzata solo in superficie. Per ciò che riguarda alcuni basilari standard di progresso e di rispetto per i diritti umani, sono indietro di secoli rispetto a noi. Non sono stati ancora capaci di imboccare la strada che l’ Occidente europeo, il Giappone e vari stati asiatici hanno iniziato a seguire più di 600 anni fa, con la costruzione del monopolio statale della violenza nei loro territori.
Monopolio che inizia con la proibizione del trasporto e dell’ uso privato delle armi da fuoco, e che prosegue con l’ espulsione della violenza dalla vita quotidiana. Da lungo tempo ci siamo sbarazzati dei duelli, delle vendette di sangue, delle faide, dei delitti d’onore. E stiamo riducendo anche le violenze contro donne, vecchi e bambini.
Le armi, in Europa, non vengono usate quasi più neppure dalle forze di polizia. Si sono quasi azzerati, da noi, i casi di uccisioni da parte della forza pubblica, contro i 900-1000 cittadini tolti di mezzo ogni anno dalla polizia americana.
Qualcuno l’ha chiamato processo di civilizzazione. Altri lo chiamano progresso dei diritti umani.
Certo è che una società senza monopolio pubblico della forza è una società incivile, dove ciascuno si sente intitolato a farsi giustizia da sé, e dove l’ ordine viene mantenuto dalla polizia, dalla paura di finire in prigione e dal timore della ritorsione nemica.
Sapete quanti arresti avvengono negli USA ogni anno? Circa 10 milioni. Il 3% della popolazione finisce ogni anno in galera, e per alcune categorie come gli adolescenti, i neri ed i poveri questa cifra è molto più alta. Un cittadino americano tra i 30 ed i 34 anni, se è bianco e con bassa istruzione, ha il 28% di probabilità di finire almeno una volta in carcere. Ma se è nero il tasso sale all’ incredibile cifra del 68% (fonte, vedi Eberstadt qui sotto, pag. 140).
Una democrazia non è tale se tiene sotto minaccia di incarcerazione intere categorie della sua popolazione. E se permette l’acquisto, la detenzione e la circolazione di 300 milioni di armi automatiche senza alcun serio controllo.
Sapete quanti sono i detenuti presenti nelle carceri americane? Oltre 2milioni. 7 volte e mezzo la percentuale europea. Il primato mondiale, come mostra la tabella che segue rinvenibile in https://en.wikipedia.org/wiki/United_States_incarceration_rate, (riferita a qualche anno fa, ma oggi la situazione è ancora peggiore).
Poiché i detenuti sono in maggioranza giovani maschi in età lavorativa, la loro presenza in galera contribuisce a gonfiare l’ esercito dei 7 milioni di adulti americani senza lavoro, e che non entrano nelle statistiche sulla disoccupazione. Chi volesse approfondire l’ argomento può leggere N. Eberstadt, Men Without Work, America’s Invisible Crisis, Templeton Press, 2016.
Avete idea, allora, di quanto durerà l’ allarme per la strage di 50 persone inermi a Las Vegas da parte di un non-terrorista?
Durerà pochi giorni, come in tutti i casi precedenti. La strage è troppo vicina ai fondamentali della (in)civiltà americana.
di Pino Arlacchi
Il Corriere della sera
17 Settembre 2017
Il Viminale ha diffuso di recente alcuni dati in grado di lasciare di stucco le Cassandre che imperversano nella vita pubblica italiana. Queste cifre mostrano come la criminalità più violenta in Italia è continuata a diminuire anche quest’anno, dopo aver toccato nel 2016 il suo minimo storico di 397 omicidi.
Sono 0.65 morti violente per ogni 100mila abitanti. E’ un dato tra i più bassi del mondo, ed esprime un trend solido, che dura ininterrotto da venticinque anni.
Per dare un’idea: nel 1991 si verificarono quasi 2.000 uccisioni, 1.136 delle quali nel triangolo criminale Campania-Sicilia-Calabria, regioni dove l’ ultraviolenza arrivò a superare i livelli di luoghi-simbolo come New York e Chicago.
La violenza più grave (quella della criminalità organizzata, dei furti e delle rapine col morto, delle vendette, delle liti e degli odi familiari più estremi) è decresciuta costantemente al Nord come al Sud, nelle metropoli e nelle province in un paese che nonostante tutto ha continuato ad incivilirsi invece di incanaglirsi.
Non siamo mai stati così sicuri, soprattutto nelle città più grandi. Roma, Genova, Milano, ma pure Palermo, Catania e perfino Napoli hanno visto crollare la violenza letale a livelli mai conosciuti.
La violenza contro le donne è in Italia la più bassa d’ Europa. Chi avesse dei dubbi può leggersi l’ analisi di Dalla Zuanna-Minello su “il Foglio” del 27 agosto.
Il declino della violenza criminale non è stato interrotto né da un decennio di crisi economica, né da una colossale ondata migratoria.
Esso è cominciato proprio quando la popolazione nata all’ estero ha iniziato una crescita di quasi venti volte, da 340mila individui del 1991 ai quasi 6 milioni di oggi.
Un esercito di giovani maschi provenienti da quasi ogni parte del pianeta, candidati naturali al disadattamento e alla protesta violenta, si sono stabiliti in Italia in modi sostanzialmente pacifici. Essi hanno smentito i profeti di sventura che li vedevano protagonisti di una impennata generale della delinquenza, e non hanno riempito i vuoti creati nei piani alti della malavita dall’ offensiva antimafia post-Capaci e Via D’ Amelio.
Una contenuta minoranza di nordafricani e latinoamericani (in prevalenza irregolari) sono entrati, è vero, nelle reti di distribuzione delle droghe mentre albanesi e romeni importavano giovani prostitute e altri si dedicavano agli scippi ed ai furti.
Ma non si sono formati cartelli criminali in grado di sostituire Cosa Nostra, e la strada della delinquenza non è riuscita, in fin dei conti, ad attrarre numeri significativi di immigrati.
Non siamo in balìa delle mafie di stranieri immigrati per due ragioni principali. Da un lato la crescita di efficienza delle nostre forze di polizia lungo gli stessi anni ’90 ha chiuso gli spazi per la nascita di gruppi criminali in grado di agire su vasta scala.
Dall’ altro, questo contingente di emigrati è composto in larga parte da soggetti che nutrono poca simpatia verso il crimine organizzato perché già vittimizzati dalle mafie dei Paesi di origine, e perché sfruttati ferocemente dai trafficanti di esseri umani.
E’ anche per queste ragioni che la società italiana è stata capace di assorbire l’ ondata migratoria degli ultimi venticinque anni senza trasformarsi in un campo di battaglia e senza creare ghetti ed odi diffusi.
Il trend depressivo della violenza e la spinta verso l’ incivilimento, che sono universali, hanno potuto così dispiegarsi anche nel nostro Paese.
Consentendo ai governi Renzi-Gentiloni di costruire una strategia verso l’ immigrazione la cui eccellenza viene adesso riconosciuta in tutta Europa.
Tutto ciò non piace agli imprenditori della paura, che non sono solo i populisti e l’ estrema destra, ma anche chi nella comunicazione produce a getto continuo mostri, allarmi gonfiati e catastrofi, facendoci perdere la fiducia in un mondo più decente.
di Pino Arlacchi
13 Settembre 2017
Su “Repubblica” di oggi trovate un grafico sulla minaccia che gli immigrati porrebbero alla sicurezza degli italiani. Il grafico è chiaramente orizzontale. Indica come negli ultimi 18 anni la quota di cittadini che ritiene questa gente pericolosa è rimasta sostanzialmente costante, con un picco verso il basso raggiunto soltanto 5 anni fa.
Come si fa a dire, allora, – come fa Ilvo Diamanti nel suo commento - che questo grafico mostra un’ aumento della “paura” verso gli immigrati, risalita fino a raggiungere “gli indici più elevati, da 10 anni ad oggi”?
Questi indici, in realtà restano contenuti nel lungo periodo, sono risaliti dal picco molto basso del 2012, e non hanno ancora raggiunto il culmine del 2017, essendo inferiori ancora di 5 punti al 51%. Invece di lanciare allarmi immotivati e scoraggianti, bisognerebbe ricordare come negli ultimi 15 anni gli stranieri residenti in Italia sono aumentati di 5 volte passando da poco più di 1 a oltre 5 milioni di individui. In prevalenza giovani, maschi, e scontenti. In grado di provocare un terremoto sociale che non è avvenuto.
Viste queste cifre, la vera domanda da porsi non è perché l’inquietitudine verso gli stranieri sia aumentata, ma perché sia rimasta costante invece di esplodere.
Iniziamo col riconoscere che la società italiana si è dimostrata capace di assorbire meglio di tante altre un ondata immigratoria dall’ estero di enormi dimensioni. Senza avere elaborato alcun piano né strategia coerenti. Da sola. Senza il sostegno della politica. E senza diventare un campo di battaglia, nonostante leghisti, fascisti e razzisti si siano dati molto da fare.
Se cominciamo a riflettere sulle ragioni di questo successo involontario della civitas italiana, lo possiamo rendere duraturo, e trasformarlo in una visione politica. Altrimenti esso rischia di venire sommerso dalle forze della società incivile, che esiste anch’essa, e che ritiene questo tema un suo punto di forza. Ma per compiere questa operazione ci vogliono, a sinistra, più determinazione e più fiducia nei propri valori. L’ esempio da seguire c’è già, e si chiama Francesco.
COME RISOLVERE LA CRISI COREANA
di Pino Arlacchi
11 settembre 2017
Un giorno sì e l’altro pure, i media italiani ed internazionali ci rifilano la storiella dell' insano ragazzetto nordcoreano che scherza con il fuoco, allenandosi a lanciare missili contro una potenza in grado di incenerirlo in poche ore.
Dico storiella perché racconto omissivo e fazioso di ciò che davvero accade.
Il tirannello in realtà sa quello che fa, e persegue una linea di calcolata provocazione, iniziata dai suoi predecessori nel 2003 con il ritiro della Corea del Nord dal trattato di non proliferazione, in modo da potersi costruire le bombe atomiche nella legalità.
La provocazione ha finora sempre funzionato. Grazie al fatto che l' America abbocca sempre alla stessa esca. Basta offrirle l' occasione di mostrare che il possesso della forza armata più potente del pianeta serve a qualcosa, e le alternative all' uso della forza svaniscono dal tavolo dei suoi presidenti.
E dai media occidentali.
Solo il caso del nucleare iraniano ha fatto eccezione, ed ha confermato la regola. Non è questione di presidenti USA forti o deboli, democratici o repubblicani. Che siano razionali e prudenti come Obama, o populisti mezzi squilibrati come Trump, tutti finiscono con l’ obbedire alle logiche del "deep state", lo stato profondo che governa gli Stati Uniti, e che rappresenta ogni giorno di più la principale minaccia alla sicurezza del mondo. Lo dicevo nel mio ”L’ inganno e la paura” stampato nel 2009. Oggi lo dice perfino il Financial Times (Rachman, 14 agosto 2017).
L' informazione dominante oscura la narrativa seria della crisi coreana. Narrativa condivisa da un larghissimo campo, che va dai conoscitori dell’ Asia, ai paesi confinanti o vicini alla Corea del Nord, ai BRICS, al resto del mondo. Narrativa condivisa soprattutto dalla parte più direttamente interessata, che è la Corea del Sud.
Cosa dice questa narrativa?
Dice in sostanza due cose. La prima è che Kim non è pazzo. E' cosciente dei rapporti di forza tra il suo regime da un lato, e non solo gli USA, ma anche la Corea del Sud, dall' altro. Il PIL della sola Corea del Sud è 40 volte quello del Nord. In una guerra vera, dove la forza economica si trasforma in capacità militare, non ci sarebbe partita.
Kim è un despota ossessionato dalla paura di essere aggredito dagli USA e di fare la fine di Saddam e di Gheddafi, due tiranni distrutti dalla rinuncia a costruirsi l' arma nucleare e dalla fiducia malriposta nei paesi occidentali, che li hanno rovesciati dopo averli sostenuti, armati e blanditi per vari decenni. Di conseguenza, come ha adombrato Putin, il baby-despota è pronto a ridurre il suo popolo a mangiare erba fino a che dovrà temere per la propria sicurezza. La sua non è una sfida disperata e folle, ma una “carta di sopravvivenza” che viene gettata sul piatto.
Si tratta dell' ultima carta rimasta al governo nordcoreano dopo essere stato messo in un angolo da un paese, gli Stati Uniti, che da 17 anni si rifiuta di sedersi a un tavolo di negoziato sul futuro della penisola coreana. Aspettando, come Obama, il crollo di un regime che non crolla. E passando, con Trump, alla minaccia militare dopo avere più volte dichiarato in campagna elettorale di voler aprire una trattativa diretta con Kim.
La seconda parte della narrativa ci dice che la via del negoziato con il governo nordcoreano è più aperta che mai, ed è l' unica percorribile. Perché?
Perché la guerra al Nord è impensabile per via delle enormi perdite umane che ricadrebbero sulla Corea del Sud, che vi si opporrebbe tralaltro con tutte le sue forze. E perché anche il cambio di regime non è praticabile, visto che quella crudele dinastia ha dimostrato di poter resistere alle crisi più dure, come la grande carestia degli anni '90 costata centinaia di migliaia di vite.
Gli Stati Uniti sono i soli ad insistere sulla linea perdente dell' attacco militare, delle sanzioni, e della caduta del regime del Nord.
Questa opzione è profondamente impopolare nella regione, e viene rigettata con veemenza da più parti. Quanti tra i soloni dell’ informazione si sono preoccupati di ricordare che l’ aspirazione più profonda della popolazione coreana non è diversa da quella delle ex- due Germanie. I coreani di ogni ceto e nazionalità vogliono la riunificazione del loro popolo e non la guerra. E un paio di decenni fa avevano imboccato proprio questa strada con la cosiddetta “Sunshine policy”, durata fino al 2008 e premiata con il Nobel per la pace al presidente sudcoreano.
La soluzione auspicata dal resto del mondo è un negoziato che inizi con la cessazione delle esplosioni nucleari da un lato e con la fine delle esercitazioni militari ai confini nordcoreani dall' altro. Una trattativa a largo raggio, che prosegua fino a sboccare in un accordo simile a quello concluso con l' Iran: stop al nucleare da una parte, e rilascio di una garanzia di sicurezza a lungo termine dall' altra. Garanzia fatta di aiuto allo sviluppo dell' economia del Nord nel contesto di una pacificazione con il Sud che preluda alla riunificazione delle due Coree.
Quello che ho appena riferito è il programma di governo del Presidente appena eletto della Corea del Sud.
Ne avete mai sentito parlare?
1. I dati diffusi di recente dal Viminale sono scioccanti, e possono lasciare di stucco le Cassandre che imperversano nella vita pubblica italiana. La criminalità più violenta in Italia è continuata a diminuire anche quest’anno, dopo aver toccato nel 2016 il suo minimo storico di 397 omicidi.
Sono 0.65 morti violente per ogni 100mila abitanti. E’ un dato tra i più bassi del mondo, ed esprime un trend solido, che dura ininterrotto da venticinque anni. Senza che alcuno vi abbia prestato la minima attenzione.
Tanto per dare un’idea, nel 1991 si verificarono quasi 2.000 uccisioni, 1.136 delle quali nel triangolo criminale Campania-Sicilia-Calabria, regioni dove l’ ultraviolenza arrivò a superare i livelli di luoghi-simbolo come New York e Chicago.
La violenza più grave – quella della criminalità organizzata, dei furti e delle rapine col morto, delle vendette, delle liti e degli odi familiari più estremi – ha subito in Italia un crollo epocale. E’ decresciuta costantemente al Nord come al Sud, nelle metropoli e nelle province, all’ interno dei generi, dei ceti e delle classi - in un paese che nonostante tutto ha continuato ad incivilirsi invece di incanaglirsi.
Non siamo mai stati così sicuri, soprattutto nelle città più grandi. Roma, Genova, Milano, ma anche Palermo, Catania e perfino Napoli hanno visto crollare la violenza letale a livelli mai conosciuti, e notevolmente inferiori, nelle città del Nord, a quelli riscontrabili a Parigi, Londra, Bruxelles e vari altri contesti.
La violenza contro le donne è in Italia la più bassa d’ Europa. Se avete dei dubbi leggetevi l’ analisi di Dalla Zuanna-Minello su “il Foglio” del 27 agosto. I delitti di mafia in Sicilia si sono quasi azzerati, e nel 2016 solo 46 persone hanno perso la vita, in Italia, a causa di conflitti familistici e passionali che qualche decennio addietro avrebbero lasciato sul terreno centinaia di vittime.
Il progresso civile dell’ Italia sembra inarrestabile. Ha superato un decennio di crisi economica, e si è svolto, per giunta, in parallelo ad una ondata migratoria anch’ essa senza precedenti.
2. Il declino della violenza criminale è iniziato proprio quando la popolazione residente nata all’ estero ha iniziato a salire impeetuosamente, aumentando di quasi venti volte, da 340mila individui del 1991 ai quasi 6 milioni di oggi. Nessun altro grande paese europeo ha dovuto affrontare un terremoto di tale portata in un così breve arco di tempo.
Un esercito di svariati milioni di giovani maschi provenienti da quasi ogni parte del pianeta, candidati naturali al disadattamento e alla protesta violenta, si sono stabiliti in Italia in modi sostanzialmente pacifici. Essi hanno smentito i profeti di sventura che li vedevano protagonisti di una grande impennata della delinquenza, e non hanno riempito i vuoti creati nei piani alti della malavita dall’ offensiva antimafia post-Capaci e Via D’ Amelio.
Un’ infima minoranza di nordafricani e latinoamericani è entrata, evvero, nelle reti di distribuzione delle droghe mentre albanesi e romeni importavano giovani prostitute e altri si dedicavano agli scippi ed ai furti.
Ma non si sono formati cartelli criminali in grado di sostituire Cosa Nostra, e la strada della delinquenza non è riuscita, in fin dei conti, ad attrarre numeri significativi di immigrati. Ciò marca una grande differenza con l’ epoca d’oro delle mafie nell’ America del primo Novecento.
Non siamo in balìa delle mafie di stranieri immigrati per due ragioni principali. Da un lato la crescita di efficienza delle nostre forze di polizia lungo gli stessi anni ’90 ha chiuso gli spazi per la nascita di gruppi criminali in grado di agire su vasta scala.
Dall’ altro, questo contingente di emigrati è composto in larga parte da soggetti che nutrono poca simpatia verso il crimine organizzato perché già vittimizzati dalle mafie dei paesi di origine, e perché sfruttati ferocemente dai trafficanti di esseri umani che li perseguitano talvolta anche dopo il loro arrivo in Italia. Le loro drammatiche storie di vita contengono spesso una rottura e una esclusione dalle trafile corruttive e del malaffare dei luoghi di provenienza.
3. E’ anche per queste ragioni che la società italiana è stata capace di assorbire la colossale ondata migratoria degli ultimi venticinque anni senza odiare, ghettizzare, creare nemici e scontri di culture e civiltà. La quota di migranti – in prevalenza irregolari - che ha scelto la strada della criminalità non è stata alimentata, in Italia, da una diffusa discriminazione sociale.
Il trend depressivo della violenza e la spinta verso l’ incivilimento, che sono universali, hanno potuto così dispiegarsi anche nel nostro Paese. Incarnandosi nel solidarismo laico e cattolico, e in una sinistra politica che su questo tema ha mantenuto una posizione univoca.
Consentendo ai governi Renzi-Gentiloni di costruire una strategia verso l’ immigrazione la cui eccellenza viene adesso riconosciuta in tutta Europa.
Certo, tutto ciò non piace agli imprenditori della paura, che non sono solo i Salvini e l’ estrema destra, ma anche un certo mondo della comunicazione che batte la grancassa del populismo producendo a getto continuo mostri, allarmi e catastrofi inesistenti, facendoci perdere la fiducia in un mondo più decente.
Pino Arlacchi 5 Settembre 2017
La Repubblica, 31 agosto 2017
Lettera al Direttore
CARO direttore, mi permetto di dissentire dalle critiche alla sinistra italiana avanzate martedì dal professor Marzio Barbagli a proposito di immigrazione e criminalità. La sinistra nostrana ha tanti difetti, ma su questo tema si muove bene, in sintonia con le posizioni della Chiesa, del governo e della maggioranza degli italiani. Non mi risulta che il Pd e i suoi dintorni stiano ignorando o coprendo una realtà scomoda da accettare, come quella di una forte incidenza degli immigrati nella perpetrazione di reati violenti.
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Metto a disposizione dei lettori di questo sito il mio studio "L'inganno e la paura. Il mito del caos globale", pubblicato nel 2009 per il Saggiatore e recentemente presentato in alcune università della Cina, in occasione della sua traduzione in lingua cinese.
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Panorama, 23 feb. 2015
Nella crisi ucraina c'è chi cerca un nemico a tutti i costi, in un delirio antirusso. Ma gli europei non vogliono la guerra. Anche perché non percepiscono Putin come un nemico.
di Pino Arlacchi
L’ accordo firmato a Minsk la settimana scorsa può essere solo l’ intervallo tra due fasi dei combattimenti oppure l’inizio di un percorso di pace in Ucraina.
Le chance della pace dipendono da cosa sarà in grado di fare la parte più debole del conflitto, cioè il governo di Petro Poroshenko. L'opposizione europea alla minaccia americana di inviare armi all’ Ucraina, ha costretto Poroshenko a cedere sui due temi più cruciali del negoziato: l’ingresso in tempi brevi del suo paese nella NATO e l’autonomia alle repubbliche filorusse dell’Est.
La crisi ucraina è iniziata un anno fa, ed è evidente che la Russia sta vincendo la partita su quasi tutta la linea.
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Roma, 12 feb. 2015
di Pino Arlacchi
E’ in corso una precipitosa corsa ai ripari. L’ establishment politico ed economico globale si è reso conto che il segno è stato passato e che la tragedia greca può diventare la tragedia dell’ Europa.
Il New York Times e il Financial Times sembrano diventati due giornali di movimento, con rivelazioni, analisi e proposte sulla crisi greca che spiazzano, per radicalità e determinazione, le posizioni ufficiali dei governi, della Commissione e del Parlamento europei, e anche quelle dei maggiori partiti europei di centro destra e di centrosinistra.
Dalle pagine di questi quotidiani il sostegno a Syriza e la critica delle politiche di austerità si sono trasferite anche sulla bocca di Obama e perfino del Fondo Monetario Internazionale.
Fa un certo effetto vedere come, giorno dopo giorno, editoriale dopo editoriale, inchiesta dopo inchiesta, cronisti e commentatori su altri temi paludati dipingono l’affresco di quella che non può essere definita in termini diversi da una mega-truffa.
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