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L'EreditĂ  di Giovanni Falcone ed i rischi del presente

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L'Antidiplomatico 23 Maggio 2020
 
“Potrei fare a meno di tanti colleghi, ma non potrei mfare a meno di Pino Arlacchi”
Giovanni Falcone
Il 23 maggio del 1992, con un terrificante attentato, la Mafia mise fine alla vita del giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre uomini della scorta, Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo e Vito Schifani. Pino Arlacchi, in esclusiva per l'AntiDiplomatico, amico e strettissimo collaboratore di Falcone, racconta, fuori da ogni retorica, la figura del Giudice che ha segnato ed ancora rappresenta un simbolo, un faro nella lotta alla mafia.
L’anniversario di Capaci non merita di annegare nella retorica. I valori colpiti il 23 maggio del 1992 con l’assassinio di Giovanni Falcone, di Francesca Morvillo e della loro scorta, sono oggi perfettamente attuali. Non solo in Italia, ma nel mondo.Ma in che cosa consiste l’eredità di Falcone, la ragione principale per la quale lo ricordiamo a quasi trent’anni dalla sua scomparsa? Sono stato il suo più stretto collaboratore e amico al di fuori dell’ambiente giudiziario, e provo qui ad esporre i miei pensieri sul tema. La memoria di Falcone è viva non solo e non tanto per le doti di coraggio e di umanità che lo contraddistinguevano. Esistevano allora molti altri uomini di legge coraggiosi ed onesti, che esercitavano la propria professione con scrupolo ed imparzialità, combattendo per ciò stesso il malaffare. E Falcone era senza dubbio uno di loro, un servitore della legge senza pretese distraordinarietà. Chi lo ha conosciuto davvero sa quanto «normale» e discreta fosse la persona.No. La differenza tra Falcone e tutti gli altri stava in un talento professionale al confine con la genialità. Non si spiegherebbe altrimenti la solidità dei processi da lui istruiti, tutti conclusisi con condanne severe a feroci capimafia. E non si spiegherebbe il fatto che le misure antimafia da lui propugnate siano diventate lo standard mondiale in materia. E sono fiero di aver dedicato gran parte del mio mandato all’ ONU a realizzare il sogno più grande di Giovanni Falcone: far nascere un trattato universale antimafia. Quello firmato proprio a Palermo nel dicembre del 2000 da 124 paesi.

 Tra il 1982 - data dell’assassinio Dalla Chiesa e del varo della prima legge di reale contrasto della mafia - e la Conferenza di Palermo, l’Italia è stata il laboratorio più avanzato della lotta contro la criminalità transnazionale. Assieme a un gruppo di colleghi e collaboratori che hanno poi proseguito quell’impegno, Giovanni Falcone ha creato una serie di tecnologie giuridiche
d’avanguardia dimostratesi di micidiale efficacia ovunque esse siano state applicate.
 I pool antimafia, la confisca dei beni, la protezione dei testimoni, l’abolizione del segreto bancario, la specializzazione delle polizie e l’unificazione degli spazi giuridici sono alla base della Convenzione di Palermo e sono oggi il linguaggio comune delle polizie e dei pubblici ministeri di tutto il pianeta. Concepire tutto ciò nella realtà di 30-40 anni addietro, quando ancora molti si chiedevano se la mafia esistesse davvero, e quando tutti gli altri paesi europei guardavano all’Italia come l’ammalato cronico del continente, è equivalso ad una piccola rivoluzione. Diventata poi una medaglia del nostro paese. Medaglia pagata a caro prezzo. E uno dei prezzi più cari è stato proprio il sacrificio di Giovanni Falcone.
 E la mafia? Come ha reagito Cosa Nostra al post-Capaci?
 La risposta dello Stato alle stragi del ‘92 e il ricambio politico avviato da Mani Pulite hanno costretto la mafia dentro una posizione difensiva che dura tuttora. Cosa Nostra è riuscita a sopravvivere alla grande offensiva del post-Capaci e post- Via d’ Amelio (l’assassinio di Paolo Borsellino), ma ha subito una sconfitta di storiche proporzioni.
 Le mafie non sono scomparse, evvero, ed affliggono ancora larghe zone della Sicilia e dell’Italia del Sud. Ma sono state costrette a ridurre al minimo l’ uso della violenza, e ad inabissarsi nella società civile e nella politica regionale e comunale. I boss si sono integrati quasi ovunque nelle reti della corruzione politica dominate dai gattopardi locali.Non sono più in grado di far cadere i governi, ma hanno moltiplicato le estorsioni, i racket ed il controllo delle risorse degli enti pubblici.
 Queste attività non hanno però compensato la diminuzione delle entrate del mercato internazionale della droga e l’esclusione dai nuovi business mondiali. I fatturati criminali di oggi sono una modesta frazione di quelli dell’epoca d’oro del malaffare. Perché la mafia riacquisti quella sicurezza in se stessa necessaria per rientrare a pieno titolo nei piani alti del palazzo occorrono tre cose.
In primo luogo occorre una iniezione straordinaria di risorse paragonabile a quella ottenuta a metà degli anni 70 con il monopolio della rotta transatlantica dell’eroina. Ed è possibile che l’occasione venga fornita dall’ iniezione di spesa pubblica post- COVID e dai fondi europei per la ricostruzione.
 In secondo luogo occorre una spallata agli apparati investigativi antimafia che abbiamo costruito assieme a Falcone lungo gli anni 90. E non vedo segnali rilevanti in questa direzione.
Ma ciò che più conta è l’atteggiamento del governo centrale verso le mafie. I colpi subiti dalla mafia siciliana dopo il 1992 in poi sono stati quasi letali. La Commissione regionale e le Commissioni provinciali di Cosa Nostra sono in disarmo da decenni. La pressione del popolo mafioso sulla società è rimasta pervasiva, ma non si è formata una nuova leadership. Una «testa» capace di ribaltare l’attuale subordinazione alla politica. Se dalla politica corrotta arrivassero nuovi segnali di incoraggiamento, Cosa Nostra potrebbe abbandonare il basso profilo e ritornare alla ribalta.
Se ciò avvenisse senza adeguata opposizione, vorrebbe dire che Capaci non ci ha insegnato niente.

https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-strage_di_capaci_pino_arlacchi_leredit_di_giovanni_falcone_ed_i_rischi_del_presente/82_35138/
 

 

 

Ora attenti a questa Finanza predatoria

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Il Fatto Quotidiano 21 Maggio 2020

Lo scenario di queste settimane richiama per certi versi quello del “golpe dello spread” che portò alla defenestrazione di Berlusconi e all’avvento di Monti nel 2011. Anche in questo caso ci sono la crisi economica, l’allarme sull’indebitamento italiano, un inizio di risalita dello spread, e una parte del circo mediatico-politico che invoca un governo gradito ai “mercati” (Draghi-unità nazionale). Tra le due situazioni c’è però un elemento in comune: il rischio di un nuovo attacco della finanza predatoria globale all’Italia e all’eurozona.

La crisi del 2008-12 fu soprattutto finanziaria e occidentale. Il dollaro, all’epoca, era preso tra due fuochi: da una parte la Cina lo teneva in ostaggio detenendo buona parte dei buoni del Tesoro americani; dall’altro c’era l’Europa con la sua moneta nata da pochi anni ma cresciuta rapidamente e fuori della tutela del dollaro. L’euro era arrivato a coprire il 30% degli scambi monetari mondiali, candidandosi al ruolo di valuta globale di riserva alternativa al biglietto verde. Una de-dollarizzazione fuori controllo è da sempre l’incubo dell’establishment Usa, il quale si orientò verso l’uso delle maniere forti: una stangata all’euro. Superato nel 2009 il momento più acuto della crisi, fu data via libera ai predatori di Wall Street. L’attacco prese la forma di un gigantesco gioco al ribasso lanciato da hedge funds e banche d’affari euroamericane contro i titoli sovrani dei Piigs – Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia, Spagna – prendendo a pretesto la loro esposizione debitoria verso l’estero. Fu creata la falsa narrativa dell’imminente default dell’Italia che obbligò Berlusconi a dimettersi. E il suo successore, Mario Monti, sistemò le cose facendo pagare a pensionati e lavoratori. La festa finì nel corso dell’anno successivo con il whatever it takes di Mario Draghi e con l’euro bastonato e rannicchiato nel suo destino di moneta senza Stato. A quasi dieci anni di distanza, gli attori sono gli stessi ma la partita è più grande ed estrema. Il capitalismo finanziario ha raggiunto lo zenit della sua potenza e si sente pronto a puntare al bersaglio grosso: non il ridimensionamento, ma la distruzione dell’euro al fine di spolpare poi i Paesi che lo adottano. La preda iniziale può essere l’Italia. Se l’aggressione funziona non c’è bisogno di spendere molta fatica per sottomettere il resto del branco. Viste le dimensioni della nostra economia, è tutta l’eurozona che salta assieme a noi. Questo tipo di gioco è presente nella testa della delinquenza finanziaria. Ma sta anche nella testa delle sue potenziali vittime, alcune delle quali non sono così vulnerabili come l’Italia e dispongono di armi di attacco e di difesa non indifferenti. Se usate per tempo. Ed è questo il punto cruciale. Cosa faranno la Germania e la Francia per difendere l’eurozona all’inizio dell’attacco, cioè quando ripartirà la litania sul pericolo di default dell’Italia con impennata dello spread? Alcuni segnali sembrano indicare un certo allarme: la decisione Bce di acquistare anche i bond declassati, la timida mutualizzazione del debito contenuta nel Mes e nel Recovery Fund, la sospensione di alcune misure dell’austerità. Ma è artiglieria leggera. E si è messo da parte il cannone degli eurobond. Che cosa farà l’asse franco-tedesco quando tuoneranno i veri colpi contro i bond italiani e quelli degli altri Piigs? Attenderà che venga attaccato il debito francese? Tenterà di ripetere il “golpe dello spread” a favore di esecutivi tecnocratici nei Piigs? Questa ultima ipotesi è insostenibile perché dietro l’angolo oggi ci sono solo governi sfascisti e ultra-nazionalisti.

La Germania non intende rinunciare a un marco svalutato che si avvale di un vasto spazio di cambi fissi, l’euro appunto. Per la Francia, si tratta di non finire tra i Piigs. Un possibile assalto del capitale finanziario, quindi, dovrebbe spingere l’asse franco-tedesco a usare le armi pesanti. Con l’appoggio delle istituzioni europee. Quali armi? A) si possono obbligare le banche europee a sfilarsi dal racket transatlantico. B) si possono promuovere azioni di contrasto a largo raggio contro la mobilità a breve termine dei capitali internazionali e contro le pratiche illegali degli hedge fund e delle piovre americane. C) si possono neutralizzare le agenzie di rating americane e private sostituendole con agenzie pubbliche ed europee. D) si possono rilanciare forme di Tobin tax rafforzate. E si potrebbe arrivare fino al limite di far risorgere la sfida al dollaro associando l’euro alle politiche de-dollarizzanti dei Brics. Ma c’è il rischio che questa dichiarazione di guerra arrivi tardi. Cioè dopo che l’Italia sarà uscita dall’Eurozona.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/05/21/ora-attenti-a-questa-finanza-predatoria/5808597/

 

"Dietro l'aggressione imperiale contro il Venezuela c'è un racket mafioso

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L'Antidiplomatico 12 Maggio 2020

L’ ultima aggressione al Venezuela, la sesta in due anni, è appena fallita. Gli Stati Uniti hanno montato l’ ennesima operazione coperta contro il governo Maduro, finendo per l’ ennesima volta nella cacca. E negando per l’ ennesima volta di avere sostenuto l’ azione criminale.Da 50 anni in qua, il copione è sempre lo stesso, cioè quello delle serie tv di bassa qualità. Un ‘ armata Brancaleone di disertori, reietti umani, ex killer delle forze speciali vengono mandati allo sbaraglio contro un governo forte, popolare e dotato di apparati di sicurezza di prim’ordine.In Venezuela trovano un solo pirla disposto a finanziare il loro delirio: Juan Guaidò. E quando il tutto raggiunge la sua ovvia conclusione, il capo della banda pubblica sul Washington Post il contratto criminale firmato da Guaidò e minaccia di citarlo in giudizio per non aver fatto la sua parte.Subito dopo, il direttore della CIA dice di non avere nulla a che fare con lo “sbarco dei porcellini”, e come prova di ciò non trova niente di meglio che dichiarare che se lo sbarco l’avesse preparato lui l’ esito sarebbe stato differente. Facendo venire così in mente a tutti lo sbarco degli esuli cubani nella baia dei Porci, organizzato dalla CIA a Cuba nel 1961 e finito nel disastro più totale.  La cosa che non cessa di sconcertare anche i critici più sgamati dell’ anonima assassini chiamata CIA è la sua incapacità di imparare dai propri sbagli. Il suo essere tutto tranne che un serio servizio di intelligence. Un servizio cioè in grado di usare il cervello prima di rapire, torturare e uccidere. Un servizio capace  di suggerire al presidente degli Stati Uniti strategie di attacco che possono anche differire dal “vado, l’ ammazzo e torno” degli Spaghetti Western.Se ai vertici della CIA non si fossero avvicendati degli psicopatici come Pompeo – un uomo che si è vantato  di avere “rubato, mentito e ingannato” davanti ai cadetti di West Point -    l’ amministrazione Trump non avrebbe collezionato in Venezuela una serie così spettacolare di sconfitte dal 1999 in poi.

Solo un infermo di mente circondato da suoi pari può non arrivare a capire la ragione di fondo dei fiaschi di Caracas: i governi chavisti non sono gli esecutivi di una repubblica delle banane. Maduro ed i suoi non sono certo immuni da difetti anche seri, ma non sono al servizio dell’ oligarchia compradora che ha spadroneggiato in Venezuela fino all’avvento di Chavez. Sono un governo nazional-popolare legittimato da un largo consenso espresso in regolari elezioni. I suoi ministri non sono pronti a calarsi le mutande di fronte al primo tycoon gringo o al primo bankster di Miami che dia rifugio ai loro soldi sporchi. Ed i  militari venezuelani non tradiscono perché Chavez ha creato un esercito popolare, una forza armata atipica per l’ America latina, che è frutto di una profonda riforma  democratica e che se ne frega del Pentagono. Una forza fedele alla Costituzione, affiancata da una milizia popolare di 4 milioni 150mila uomini e donne.

Pentagono e pianificatori militari sono consapevoli di tutto questo. Non ne fanno mistero e si oppongono ai deliri di Trump, Pompeo e simili. Basta consultare la simulazione di un attacco al Venezuela pubblicata su Foreign Affairs, la rivista dell’ establishment atlantico: tutto inizierebbe come l’ Irak e finirebbe come il Vietnam.
Se è così, ci si può chiedere allora perché non scattino dei contrappesi alla crudele demenza che appesta la Casa Bianca. In fondo, anche il governo americano è un’entità complessa, e se il capo della CIA non è in grado di ragionare, ci dovrebbe essere qualcun altro – Congresso o Dipartimento di Stato, per esempio - a proporre strategie più razionali sul Venezuela.  
Ma è proprio qui che sta la tragedia dell’ attuale elite del potere americano. La perdita di contatto con la realtà è comune a quasi tutte le sue componenti, ed è tipica dei regimi in disfacimento. Dagli imperatori romani della decadenza in poi, le cabine di regia subiscono un processo degenerativo e si affollano di pazzi, delinquenti, e semplici imbecilli incapaci di valutare le conseguenze ultime delle loro azioni.
Il materiale umano avariato che compone l’ amministrazione USA non è in grado, perciò,  di governare processi a vasto raggio, ed è facile preda di gruppi di interesse relativamente piccoli. Nel caso del Venezuela, parliamo di un racket para-mafioso composto da un pugno di grassatori di Wall Street strettamente associati a membri dell’ oligarchia venezuelana in esilio installati tra Harvard e Washington. Tutti insieme appassionatamente nel saccheggio del proprio paese.  
Sono i burattinai di Guaidò. Mi riferisco ai beneficiari delle sanzioni e del blocco finanziario del Venezuela decisi dal tesoro americano (200 miliardi di dollari). Gli architetti del sequestro del pezzo più pregiato dell’industria petrolifera venezuelana, la mega-raffineria CITGO, localizzata negli Stati Uniti (30 miliardi di dollari). Parlo della stessa gang che ha distrutto la moneta nazionale del Venezuela (300 miliardi di dollari) tramite siti web che pubblicano false quotazioni del tasso di cambio. Una cupola affaristica che  ha spinto il Tesoro USA a congelare i fondi del Venezuela depositati nelle banche di 15 nazioni (5 miliardi di dollari, sufficienti da soli a soddisfare i bisogni alimentari del paese per un paio di anni).
Dietro l’aggressione imperiale del Venezuela, quindi, agisce un perfido racket mafioso che assomiglia a Cosa Nostra. Ma è proprio in Italia che abbiamo dimostrato che la mafia non è invincibile.
 *Ex Vice Segretario Generale dell'Onu

https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-pino_arlacchi_dietro_laggressione_imperiale_contro_il_venezuela_c_un_racket_mafioso_che_assomiglia_a_cosa_nostra/82_34897/

 

Gli Stati Uniti dal governo mondiale alla protezione mafiosa

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La Fionda, 7 Maggio 2020

In questi tempi arroventati, si cercano i precedenti della crisi attuale e si discute molto, perciò, di Bretton Woods, la Conferenza del 1944 che ha rifondato l’ordine mondiale. Ma poiché la storia è sempre storia del presente, si trascura spesso di considerare la stretta connessione di Bretton Woods con la Conferenza di San Francisco che portò alla creazione delle Nazioni Unite l’anno successivo. E si trascura di evocare la comune matrice: l’idea del governo mondiale. Una visione che dopo gli anni ’20 del Novecento era diventato molto popolare, promossa dai milioni di iscritti alle varie associazioni che ad essa si ispiravano e condivisa da grandi personalità.

Fu il Presidente Roosevelt a trasformare questa visione in un progetto di governo del mondo a guida americana. Un progetto ultra-utopico, che intendeva estendere al pianeta la formula del  New Deal appena sperimentata negli Stati Uniti. La proposta si basava su una narrativa molto precisa della tragedia della prima metà del Novecento: fascismo, nazionalismo e guerre erano stati causati dalle crisi economiche e dalla disoccupazione di massa che avevano afflitto l’Europa e in misura più limitata gli Stati Uniti. Per voltare definitivamente pagina rispetto a questi mali occorreva dar corpo a un sistema sovranazionale di portata mondiale detentore del monopolio della violenza e dei mezzi per esercitarla, nonché di una capacità di governo degli affari strategici del pianeta. Solo così si sarebbe raggiunta la piena occupazione, si sarebbe data stabilità ai rapporti internazionali e si sarebbero prevenute guerre, estremismi e crack finanziari.

Questa visione non venne mai resa esplicita da Roosevelt per non allarmare i membri del Congresso fermamente contrari ad ogni suggestione mondialista. Ma la centralità degli Stati Uniti nel progetto rooseveltiano ben rifletteva le aspirazioni dell’élite del potere americano che aveva combattuto la seconda guerra mondiale non solo per eliminare i nemici, ma anche per costruire le basi di un successivo ordine globale a propria immagine e somiglianza. In poche parole, la proposta rooseveltiana era il progetto politico tra i più ambiziosi della storia umana. Le sue componenti erano tre: a) la creazione di uno stato mondiale con un governo, un parlamento e una Corte di giustizia universali, 2) un regime di regolazione volto ad eliminare il tallone d’Achille finanziario del capitalismo, 3) un vastissimo piano di aiuto economico e di ricostruzione post-bellica, finanziato dagli USA, che avrebbe dovuto includere tutti i paesi del mondo, Cina ed Unione Sovietica incluse.

Non c’era, secondo Roosevelt, un conflitto inconciliabile di interessi tra USA e URSS. Permaneva certo la differenza radicale tra i due sistemi, ma la superiorità complessiva del sistema capitalistico, adesso che la cabina di regia era passata dalle mani meschine degli inglesi a quelle della nazione prescelta da Dio, si sarebbe affermata gradualmente e pacificamente. Il capitalismo americano avrebbe avuto ragione del comunismo senza scontri devastanti. Com’è noto, il progetto rooseveltiano non fu attuato secondo l’ispirazione originaria. Il Congresso USA non manifestò alcuna intenzione di finanziare un’impresa di quelle dimensioni e di quella temerarietà. Un altro ostacolo fu rappresentato dai i venti di guerra fredda che iniziarono presto a soffiare su Washington. Una delle premesse di fondo della politica di Roosevelt era la continuazione del buon rapporto stabilitosi con l’Unione Sovietica durante la guerra e il suo coinvolgimento pieno nel governo postbellico del pianeta. Nella visione del Presidente americano, le Nazioni Unite erano anche uno strumento per evitare che la divisione del mondo in due parti contrapposte inaugurasse un nuovo ciclo di guerra e di instabilità.

La morte di Roosevelt e l’avvento al potere di Truman, “il politicante del Missouri”, pragmatico e anticomunista, accelerò una delle svolte più drammatiche della storia contemporanea. Secondo alcuni studiosi, fu l’esplosione della bomba atomica a Hiroshima e Nagasaki, nell’agosto 1945, autorizzata da Truman, che dette inizio alla guerra fredda. L’ordigno nucleare non fu usato per costringere alla resa un Giappone già sconfitto, ma per intimidire i sovietici, segnalando che gli USA erano detentori di una superiorità militare irraggiungibile. Da allora in poi, la politica americana non ha lasciato ai sovietici altra opzione che questa: l’acquiescenza alle decisioni della potenza egemone, o il confronto con la forza degli USA. L’ avvento di Truman ridimensionò ma non eliminò il progetto di Roosevelt. La creazione dell’ONU, la repressione finanziaria e il dollaro come nuova moneta universale stabiliti a Bretton Woods, e il Piano Marshall varato dopo la morte di Roosevelt sono state le incarnazioni su scala più ridotta delle tre tessere del disegno originario.

L’ utopia rooseveltiana riuscì comunque a prefigurare l’ordine mondiale sotto il quale l’Occidente è vissuto fino ai nostri giorni. Essa generò quelle politiche che hanno portato alla formazione del “mondo libero”, una galleria di nazioni grandi e piccole ma dominate dall’ America, che negli anni successivi al 1945 si sarebbero legate l’un l’altra da vincoli militari, politici ed economici crescenti. Dal progetto originario fu eliminata l’ idea di integrare la Russia nel nuovo ordine e di creare così un mondo unico invece dei tre che ci siamo ritrovati dopo. Tolto l’ impegno verso la pace globale e verso l’ unificazione politica del pianeta, ne derivò anche un ridimensionamento del ruolo delle Nazioni Unite, ma ciò che rimase bastò per aprire una nuova fase dell’ espansionismo americano.

Per la prima parte del dopoguerra, l’ America ha funzionato in effetti come un governo mondiale, ristretto ai soli paesi occidentali ed organizzato attraverso gli strumenti prefigurati da Roosevelt: un potere militare dislocato strategicamente in ogni angolo del pianeta, e rafforzato da alleanze militari regionali nelle zone più prossime alle principali minacce; un sistema monetario basato sul dollaro, e una rete di trattati, organizzazioni e alleanze ruotanti intorno alle istituzioni di Bretton Woods, all’ ONU e agli stessi Stati Uniti. E’ solo nel corso degli anni ’70 del Novecento e dopo il 2000 che questo assetto è iniziato a declinare, prima lentamente e poi precipitosamente.

Non è possibile spiegare la guerra fredda senza far ricorso alla necessità del capitalismo americano di creare o inflazionare minacce allo scopo di espandersi all’ estero, aprendo nuovi mercati e nuove opportunità di investimento per i suoi centri industriali e finanziari. Gli Stati Uniti erano perfettamente coscienti della propria superiorità strategica su ogni altro paese, e dopo il 1945 rifiutarono di negoziare qualsiasi proposta russa di sistemazione complessiva delle questioni controverse. Washington sapeva che eleggendo l’Unione Sovietica a Grande Nemico non avrebbero rischiato una nuova guerra. Quasi tutti i 45 anni della guerra fredda si sono svolti in un clima di crescita degli armamenti americani ed occidentali stimolata da una minaccia largamente esagerata. Un esame anche sommario della dottrina sovietica del tempo avrebbe facilmente concluso che non esisteva alcuna intenzione di provocare una grande guerra né con gli USA né con l’ Europa. I piani sovietici di una invasione a freddo, non provocata, dell’ Europa occidentale non si sono mai trovati, neppure dopo il crollo del comunismo, l’apertura degli archivi russi e la moltiplicazione delle testimonianze. E non si è trovata neanche traccia del famoso first strike, il primo colpo atomico, contro gli Stati Uniti. Già nel 1982 erano disponibili studi che dimostravano come l’ esercito sovietico non sia mai stato nelle condizioni di porre una minaccia credibile alla sicurezza dell’ Europa Occidentale,  e come la stessa guerra fredda fosse stata lanciata nella consapevolezza che l’ Unione Sovietica non costituisse un pericolo mortale.

Soffermiamoci adesso su un aspetto. La base dell’ egemonia americana sul “mondo libero” era la capacità degli Stati Uniti di fornire ai suoi alleati un bene di importanza suprema, la protezione. La minaccia di aggressione esterna che aveva creato il bisogno della protezione era – all’ inizio della guerra fredda – largamente inventata. Gli Stati Uniti stessi avevano prodotto sia il pericolo che la protezione. Ma con il tempo si aprì una spaccatura. Mentre in gran parte del pianeta risultava evidente che la minaccia sovietica era gonfiata artificialmente, la stessa minaccia aveva progressivamente assunto in Europa i contorni di un fatto reale, come una specie di profezia che si autoavvera. L’ Unione Sovietica, infatti, aveva colto al volo il messaggio di Hiroshima ed aveva accelerato i suoi programmi nucleari. La prima bomba atomica russa esplose nel 1949. Insieme alla ricostruzione delle infrastrutture e al ripristino della sua capacità produttiva, l’ URSS si imbarcò in un processo di riarmo pesantissimo, che dagli anni ’50 in poi  arrivò ad assorbire fino al 15% del suo PIL. Alla fine degli anni ’50 il paese era dotato di un esercito di 4,3 milioni di uomini e di un grande arsenale nucleare, parte del quale rivolto contro l’ Europa.

Anche chi in Europa non credeva ai piani di invasione via terra aveva paura della minaccia missilistica. Per quanto amplificato e distorto, quindi, il pericolo da cui dipendeva il servizio di protezione offerto dagli USA agli stati che facevano parte del “mondo libero”, non era più campato in aria. I paesi europei parteciparono così di buon grado alla costituzione di un vasto esercito multinazionale a guida americana, quello della NATO, allo scopo di fronteggiare un attacco proveniente da Est. Lo sviluppo della guerra fredda, però, aveva anche avuto un altro effetto, di segno ben diverso dall’ accettazione europea della protezione americana. In Asia, in Africa e in America Latina si erano sviluppati nel dopoguerra numerosi movimenti di liberazione nazionale all’ interno del processo di decolonizzazione. L’ occasione fu colta dall’ Unione Sovietica, ed in vari contesti  – Cuba e Vietnam in primo luogo – avvenne una saldatura tra le aspirazioni delle elites che cercavano l’ indipendenza del loro paese e gli interessi della superpotenza atomica nascente. Si aprirono così decine di conflitti in ogni angolo del mondo, definiti dagli studiosi come “guerre per procura”. In nome della lotta al comunismo, il governo americano è intervenuto decine di volte all’ estero, sostenendo e rovesciando governi, fomentando azioni antiguerriglia, finanziando colpi di stato, organizzando assassini politici.

Chi parla con superficialità di “impero benevolo” e “riluttante” a proposito dell’ egemonia USA nel dopoguerra, dovrebbe sapere che gli imperi hanno sempre una componente coercitiva, e quello americano non ha fatto certo eccezione. Il suo profilo di governo mondiale, tralaltro, implicava una pretesa di mantenimento non solo della pace internazionale ma anche dell’ “ordine pubblico” interno. L’ esercizio della funzione coercitiva comportò continue violazioni della sovranità dei paesi facenti parte del circolo più ristretto dell’ impero, ma l’ imbarazzo e l’ ostilità per  queste violazioni  finirono con l’ essere controbilanciati in molti luoghi dalla  percezione che gli Stati Uniti, in fin dei conti, agivano come uno stato sopranazionale, che forniva ai suoi membri i beni pubblici cruciali della sicurezza e della pace. In alcune grandi regioni dell’ impero come l’ America Latina, però, dove la minaccia del comunismo sovietico non era mai riuscita a diventare credibile, l’ appoggio degli USA alle violenze di massa ed alle  controrivoluzioni scatenate dai locali ceti dominanti contro i movimenti popolari lasciò una scia di risentimento profondo. Ciò ha contribuito a provocare negli anni ‘90, e con ritmo accelerato in questo secolo, una fuoruscita dall’ orbita USA della maggioranza dei governi del continente.

Giovanni Arrighi sostiene che alla base della benevolenza del “mondo libero” verso il Leviatano americano c’era anche un altro fattore: il prezzo imbattibile del servizio offerto. Ai clienti non veniva chiesto altro che di agganciarsi al carro americano nell’ arena politica internazionale, adottare il dollaro come moneta di riferimento e fornire ospitalità alle infrastrutture militari USA. Nessun paese era in grado di offrire sicurezza a un prezzo così basso. La Pax americana riposava su una ricchezza molto più vasta di quella della pax britannica. Nel 1950 nessuna nazione aveva un prodotto lordo che raggiungesse un terzo di quello americano. La spesa militare USA quadruplicò nel giro di soli tre anni, raggiungendo i 50 miliardi di dollari nel 1950 (492 miliardi del 2017) e si accompagnò ad una moltiplicazione delle alleanze e delle basi militari. Nel 1955 gli USA avevano già 450 basi in 36 paesi.

La situazione cominciò a cambiare con i segnali di crisi dell’ egemonia USA dei tardi anni ’60 e dei primi anni ’70. La guerra del Vietnam dimostrò che la protezione statunitense non era così affidabile come gli Stati Uniti pretendevano e come i loro clienti si aspettavano che fosse.  La sconfitta del Vietnam fu seguita da una serie di episodi che confermarono l’ erosione della forza militare degli Stati Uniti. Consapevole di non poter prevalere nei conflitti asimmetrici del Libano nel 1983, e del Nicaragua, dell’ Angola, dell’ Afghanistan e della Cambogia negli anni successivi, l’ amministrazione Reagan evitò con cura ogni confronto militare sul campo, agendo dietro le quinte e combattendo tramite intermediari. Negli stessi anni ’80, la teoria dell’ “equilibrio del terrore” si diffuse a livello di massa e contribuì a deflazionare la sensazione di panico verso il potere nucleare russo che aveva attanagliato gli europei nei decenni precedenti. Non solo gli esperti di grandi strategie, ma anche i cittadini comuni cominciarono a chiedersi se per caso le armi nucleari non si fossero neutralizzate da sole, diventando  irrilevanti per la sicurezza collettiva. Contemporaneamente, l’amministrazione Reagan intraprese un ulteriore programma di riarmo e un attacco generalizzato alla presenza sovietica e alle forze antiamericane nel Terzo Mondo. L’ offensiva si svolse arruolando una serie di bulli e tiranni locali, tra cui Saddam Hussein, e vari personaggi del fondamentalismo islamico come Osama Bin Laden. Consapevolmente o meno, gli Stati Uniti hanno creato negli anni ’80 i pericoli contro i quali avrebbero poi offerto la loro protezione nei decenni successivi.  

Alla perdita di credibilità del potere militare USA, si aggiunsero le conseguenze del crollo del sistema di Bretton Woods seguito alla dichiarazione di non convertibilità del dollaro in oro del 1971, e la perdita del controllo politico dell’ Assemblea Generale dell’ ONU, divenuta una cassa di risonanza delle insoddisfazioni del Terzo Mondo. L’ egemonia americana iniziò a scricchiolare soprattutto a causa delle oscillazioni  del suo pilastro commerciale e finanziario. Furono le stesse forze di mercato che erano state stimolate dall’ instaurazione delle regole di Bretton Woods a mostrare la vulnerabilità della Pax americana ai deficit commerciali ed ai movimenti internazionali di capitale. Con Reagan terminarono anche i tempi della protezione a prezzi stracciati. L’ ombrello militare al Giappone, prima quasi gratuito, fu messo su un piatto della bilancia. E sull’ altro fu richiesto a Tokio di ridurre la competizione con gli Stati Uniti e di usare il capitale in eccesso per finanziare il crescente deficit commerciale e di bilancio con gli USA. La stessa richiesta fu fatta agli europei. Ma non in modo esplicito, come fa oggi Trump. Il governo americano decise un rialzo dei tassi di interesse talmente alto da attrarre un gigantesco flusso di capitali verso gli USA, che si trasformarono da maggior creditore a maggior debitore del pianeta. Siamo ormai nella fase di declino dell’Impero. Il governo mondiale è già un ricordo, e la filosofia sottostante si è rovesciata: se la potenza militare americana deve continuare a garantire protezione al “mondo libero”, questo deve fornire agli Stati Uniti il capitale occorrente per la bisogna. Anche quando il pericolo non c’è o è stato creato dallo stesso protettore. Ma la formula scelta trenta anni fa, e perseguita tuttora, presenta sempre lo stesso difetto. Se si sceglie di far finanziare il deficit di bilancio con l’ acquisto di buoni del tesoro USA, non si fa altro che posporre il problema, perché prima o poi i buoni scadono, e perché generano un flusso di pagamenti di interessi a residenti all’ estero che accresce il passivo delle partite correnti.

E’ nel decennio di svolta, cioè nei turbolenti anni ’80, che Washington inizia la trasformazione della protezione legittima in una tipica estorsione mafiosa, dove chi offre il servizio è anche il soggetto che crea la minaccia. Nei decenni successivi il potere americano ha dimostrato sempre più chiaramente di basarsi sui due pilastri del dollaro e del military, a scapito del soft power, il suo evanescente credito morale.   All’ inizio di questo secolo, dopo il rinnovato uso della forza in Afghanistan, Iraq, Siria, Libia e Yemen, e dopo un quindicennio di violazioni gravi di diritti umani espressi nell’ uso frequente della tortura, del rapimento e della detenzione senza processo in varie parti del mondo, non restano che poche tracce, anche presso i loro alleati, del prestigio goduto  un tempo dagli Stati Uniti. Lo sceriffo buono ha ceduto il posto al Padrino.

https://www.lafionda.org/2020/05/07/gli-stati-uniti-dal-governo-mondiale-alla-protezione-mafiosa/

 

Conte difende il nostro paese dai figli di Troika

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Il Fatto Quotidiano, 7 Maggio 2020

In questi tempi di fuoco, l’unico uomo di governo che pare aver capito qual è la vera posta in gioco è Giuseppe Conte. I suoi riferimenti alla tragedia della Grecia, la sua opposizione all’indebitamento sconsiderato e il suo richiamo all’eventualità di “fare da soli” non lasciano dubbi al riguardo. La posta in gioco è la protezione dell’Italia da un possibile assalto da parte della finanza predatoria mondiale. Un attacco contro una potenza economica globale, molto più devastante di quello che ha appena lasciato la Grecia su una sedia a rotelle per i prossimi 50 anni.

Si parla della possibilità che le mafie nostrane si impadroniscano di imprese e commerci in difficoltà. Ma contro questo tipo di delinquenza disponiamo di strumenti che ci mettono in grado di giocare la partita. Il problema è che di fronte a una criminalità organizzata non codificata come tale, ma centinaia di volte più potente di Cosa Nostra, che colpisce l’Italia nel suo punto critico dell’indebitamento verso i mercati esteri, non c’è via di scampo se non si usa l’arma della sovranità monetaria. Quella propria o quella che si è delegata alla Bce. Il termine criminalità internazionale non viene qui usato in senso metaforico. Esiste da vari decenni un circolo di potere mondiale che agisce come un racket. Esso fa capo a un pugno di istituzioni finanziarie americane (conglomerati bancari, hedge fund, mega-fondi di investimento) con propaggini e alleati in Europa. Organismi strettamente associati alle agenzie di rating e in grado di guidare le mosse del Tesoro Usa e del Fondo monetario internazionale. Sono i “figli di Troika” che ispirano le politiche finanziarie dell’Unione europea e che spadroneggiano nei mercati finanziari occidentali: una ventina di affiliati, otto dei quali euroamericani, versati meglio di Cosa Nostra nell’arte e nella scienza del delinquere impunemente. La connection è formalmente legale. I giornali la chiamano “i mercati”, ma essa è in grado di accumulare profitti illegali che neppure la caverna di Ali Babà è in grado di contenere. In quanto a concentrazione assoluta di potere, la finanza predatoria sta alle mafie come i gattini domestici stanno alle tigri e ai leoni. Parlo delle banche d’affari e delle società finanziarie multinazionali dalle quali provengono o dove vanno a finire molti ministri delle Finanze, alti burocrati, commissari e presidenti delle istituzioni europee tramite una “porta girevole” poco conosciuta, ma di estrema pericolosità.

La mega-truffa alla Grecia ha infilato nelle fauci del racket varie centinaia di miliardi di euro. Ma il reale bersaglio è stata l’Unione europea, che ha finito col saldare il conto di un indebitamento di Atene portato alle stelle da prestiti avvelenati. L’Istat stima, esagerando, l’intero fatturato illecito italiano in 15 miliardi di euro all’anno. Ma la sola truffetta della vendita al Tesoro italiano di prodotti tossici da parte dei banksters ha fruttato 23 miliardi di euro. Per non parlare della spoliazione della ricchezza nazionale della Libia, dell’Irlanda e del Venezuela. Non credo nella Spectre. L’alta finanza funziona in modo più complesso. Ma ho sentito parlare del reato di associazione a delinquere. Non è difficile, allora, valutare il boccone che si profila se un’Italia non adeguatamente sostenuta dal fiat money della Bce e dalla tutela di un debito mutualizzato è costretta a fare da sola, imboccando la strada di uscita dall’Eurozona. Le due maggiori società di rating sono istituti privati e americani. I tentativi di creare agenzie pubbliche ed europee sono stati sventati dalla porta girevole citata. Un giochetto di squadra tra queste società pronte a declassare la vittima designata, più un assalto ai titoli italiani da parte del branco, e il tutto condito dalla falsa narrativa del default dell’Italia, può farci un bel po’ di male. Ma solo Conte pare aver mangiato la foglia.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/05/07/conte-difende-il-nostro-paese-dai-figli-di-troika/5793991/

 

Pino Arlacchi all'Antidiplomatico: "Un Piano B prima che la finanza predatoria colpisca l'Italia"

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L'Antidiplomatico, 25 Aprile 2020

Professore, come commenta l’ accordo del Consiglio Europeo dell’ altro ieri che ratifica le conclusioni dell’ Eurogruppo del 9 Aprile ed apre, secondo giornali e Governo italiano, al cosiddetto Recovery Fund?

Mi sembra difficile definirlo un successo. Conte ha ragione quando dice che il fatto stesso di mettere in agenda un possibile impegno dell’UE a finanziare uno sforzo comune è un passo avanti impensabile rispetto ai tempi dell’ austerità. Ma il parametro giusto, la domanda giusta da porsi, è se si tratta di uno strumento adeguato ad affrontare una crisi di questa portata. E tutto quello che ci ritroviamo è una serie di impegni nel campo del virtuale: un aumento del budget dell’ Unione dall’ 1,2 al 2% del PIL di ciascun Stato membro per 2 o 3 anni, ottenuto non con soldi reali ma sotto forma di garanzie. 
Sul tavolo ci sono in tutto 250-300 miliardi di euro, pari all’ 0,6% del PIL dei 27 Stati. Una cifra pressochè ridicola. Parte di questa somma dovrebbe riaffluire ai singoli membri sotto forma di grant (fondo perduto) o di prestiti. La Commissione intende poi far lievitare, tramite lo stesso effetto leva del famigerato piano Junker, la quota dei prestiti fino all’ effetto “titoli da prima pagina” desiderato: I 1500, 2000 e più miliardi euro che esistono solo nelle fantasie dei gonzi che ci credono.

Italia, Spagna e Francia sconfitte, allora?

Finora sì. Anche sulla tempistica. Come si fa ad accettare il rimbalzo della palla alla Commissione fra due settimane, e l’ avvio del Fondo vero e proprio al 2021? C’è il rischio di ritrovarsi con l’ operazione riuscita e con il paziente morto. E non capisco perché i tre maggiori paesi dell’ Unione dopo la Germania non si decidano a fare un reale fronte comune. Conte e Macron hanno le idee chiare, e Conte sembra avere anche la determinazione necessaria per fare a meno dell’ Eurozona se sull’ altro piatto della bilancia c’è la catastrofe di un’ Italia a meno 15% del PIL alla fine dell’ anno. Macron è più volubile perché è un uomo dei mercati finanziari, e un francese che si accontenta del grandiloquio invece dell’ azione. Ma di fronte alla catastrofe non può che allinearsi sulle posizioni italiane e spagnole.

Un blocco mediterraneo, allora, proposta dall’ Italia, che proponga un piano B?

Non vedo altra via di uscita, prima che la crisi si avviti e futuri governo sovranisti ci facciano uscire dall’ euro e forse anche dall’Unione Europea. Togliendoci lo scudo che ci protegge dall’ assalto della finanza predatoria, diventata iperpotente perchè è finita col coincidere con quelli che vengono chiamati “mercati finanziari”.
Un accordo tra i paesi dell’ Europa del Sud che decidano di formare un blocco anche nel consiglio direttivo della BCE – dove si vota a maggioranza di due terzi e non all’ unanimità come nelle istituzioni UE - obbligandola a sterilizzare il debito dei membri dell’ eurozona da essa detenuto, e ad inaugurare un trasferimento illimitato e diretto di fondi a cittadini ed imprese.


Ma i trattati non proibiscono alla BCE di finanziare gli Stati?  

Certo che lo proibiscono. Ma non proibiscono affatto alla BCE di mettere soldi direttamente nelle tasche di cittadini ed imprese. Senza indebitare nessuno. E’ questa la via maestra che dovrebbero imboccare Conte, Sanchez ed altri leader non integrati negli schemi mentali e negli interessi del capitale finanziario che ancora spadroneggiano nelle istituzioni europee. Ho proposto per primo, più di un mese fa, questa linea. Che è condivisa tralatro da alcuni tra i più autorevoli economisti, e che alcuni governi extra-europei hanno iniziato a mettere in pratica. I sudditi della grande finanza non amano una BCE che crea denaro e lo distribuisce senza intermediazioni perché questa pratica taglia fuori le banche private, beneficia solo l’ economia reale e riduce le turbolenze e gli spread di cui si cibano i predatori. 

La finanza predatoria è davvero così forte? Riesce davvero a controllare l’ andamento dei mercati finanziari globali?

Le dico solo questo. Siamo in mezzo alla più profonda crisi della storia del capitalismo. Le borse mondiali hanno perso metà del loro valore da febbraio in poi, con una velocità superiore al crollo del 1987e con un effetto-paura superiore a quello dell’ 11 settembre 2001. Ebbene, dall’inizio di Aprile ad oggi si è verificato dentro le stesse piazze un incredibile rimbalzo del 24%, totalmente sconnesso dall’ economia reale. 
Improvvisa ondata di fiducia nella V della ripresa? No. I padroni di Wall Street hanno semplicemente deciso di cavalcare sui 14 trilioni di dollari che le banche centrali stanno immettendo nel sistema per tentare di salvarlo. Hedge funds, banche d’affari e fondi investimento hanno accumulato tonnellate di denaro puntando sul rialzo. Rifacendosi in parte delle perdite pregresse. E pronti a lucrare sul viaggio di ritorno, scommettendo al ribasso quando l’ inevitabile discesa dei valori dei titoli riprenderà il suo corso. 


Sono allora in grado di colpire una valuta forte come l’ euro?
     
Lo hanno già fatto, e con successo. E stanno tentando di  rifarlo. La loro idea è di ripetere su scala allargata, con l’ Italia, ciò che hanno fatto alla Grecia pochi anni fa. Ma il rischio stavolta è davvero enorme. Se riescono a far crollare l’ Italia e farla uscire o cacciare dall’ Eurozona, è quest’ultima che crolla assieme al nostro paese. I tedeschi non vogliono questo esito. Non vogliono arrivare fino a questo punto perché intendono continuare ad avvantaggiarsi di un marco svalutato, cioè l’ euro. Ma sono pronti a portare il gioco molto avanti, in sintonia con la congrega finanziaria, facendo pagare ancora più cara all’ Italia (ed agli altri Stati membri più indebitati) la polizza di assicurazione che abbiamo sottoscritto incautamente a Maastricht venti anni fa.

Ci sono ancora margini?

Ci sono sempre margini in un gioco così complesso. Conte e gli altri dovrebbero gettare sul piatto il carico da 90: l’ uscita dall’ Eurozona. Hanno iniziato a farlo, ma in modo allusivo, con le dichiarazioni del tipo “faremo da soli se non dimostrate sufficiente solidarietà”. Ma le minacce, per essere efficaci, devono essere credibili.

https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-pino_arlacchi_allantidiplomatico_un_piano_b_prima_che_la_finanza_predatoria_colpisca_litalia/5496_34496/

 

 

 
 

Pino Arlacchi - Il nuovo ordine mondiale (che non ci sarĂ )

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L'Antidiplomatico, 24 Aprile 2020

Circola una retorica sensazionalista che vede la sindrome del Coronavirus come una svolta radicale della storia moderna: “il mondo non sarà più come prima”, “tempi eccezionali richiedono riposte eccezionali”, “siamo in guerra e dobbiamo comportarci di conseguenza”, eccetera.Ma la situazione attuale è davvero paragonabile a quella che ha portato, dopo la seconda guerra mondiale, ad una rifondazione del sistema internazionale? La mia risposta è netta: non ci sarà alcuna svolta epocale, ma una accelerazione di processi di trasformazione già in atto a livello globale da diversi decenni.  

Basta confrontare gli eventi di questi giorni  - tra cui il flop del Consiglio Europeo di ieri sulle misure per finanziare gli sforzi anticiclici degli Stati membri - con il termine storico principale di riferimento della crisi attuale, che è il “momento Bretton Woods”. Parlo della Conferenza che stabilì le basi del modello di sviluppo dell’economia occidentale del dopoguerra. Le basi di quella che viene chiamata “l’ epoca d’oro” del capitalismo occidentale, inaugurata sul versante economico a Bretton Woods nel 1944,  e sul piano geopolitico a San Francisco l’ anno dopo con la creazione delle Nazioni Unite. Bretton Woods segna la nascita del modello di sviluppo seguito dai paesi occidentali fino al 1971, anno del divorzio del dollaro dall’ oro e dell’ inizio della fase neoliberista tramontata proprio in queste settimane assieme all’ egemonia americana.

La conferenza di Bretton Woods fu dominata dalle idee di Lord Keynes e governata dai piani di governo mondiale della nuova potenza egemone:  gli Stati Uniti.I suoi pilastri furono due: il richiamo in vita del gold standard sotto forma di un sistema di pagamenti mondiali basato sulle riserve di oro e dollari detenute dal Tesoro USA, e la quasi completa eliminazione dalle dinamiche dell’ economia capitalistica dei movimenti internazionali di capitale e della finanza privata (“l’eutanasia del rentier” auspicata da Keynes).
Bretton Woods inaugurò una larga ri-nazionalizzazione del capitalismo. Nei decenni successivi, in Europa, lo Stato nazionale prese in mano la situazione, e soppiantò progressivamente il settore privato nel controllo delle banche e delle imprese di settori strategici quali le telecomunicazioni, le grandi infrastrutture, l’ elettronica, la chimica, la produzione di energia.
I “miracoli economici” dell’ Italia, del Giappone e degli altri paesi europei furono dovuti in buona parte al fatto che la finanza fu interamente messa al servizio non solo dell’ economia reale ma anche delle esigenze dello stato. Banche e fondi pensione vennero obbligate per legge a detenere il debito dei loro paesi. La “repressione finanziaria” di Bretton Woods portò ad una sensazionale riduzione del debito pubblico sia nei paesi occidentali che nel resto del mondo, passando dal 90% del PIL nel 1945 al minimo storico del 25% nel 1973.
Da allora in poi, con l’avvento degli “anni di piombo” neoliberisti, è iniziata la risalita del debito in Occidente, tornato ai livelli del 1945. In breve, Bretton Woods prefigurò e realizzò un assetto di governo dei mercati finanziari che consentiva di ridurre il peso del debito pubblico, sopprimere speculazione e instabilità, trasformare i risparmi in investimenti produttivi. Ci si può meravigliare se il risultato finale fu la crescita economica più intensa, prolungata ed equilibrata della storia occidentale? Venticinque anni senza una sola crisi finanziaria?
La lezione di Bretton Woods è eloquente: la cabina di regia della crescita non sta nelle mani del mercato ma in quelle dello Stato. La stessa autorità pubblica che, su pressione popolare, iniziò a tessere in tutta Europa una rete di protezione sociale, anch’ essa senza precedenti. La spesa sociale europea passò dall’ 8% del PIL alla fine degli anni ’50 al 16% nel 1975, per poi venire in parte smantellata dalla controrivoluzione neoliberista.
La Conferenza di Bretton Woods durò solo tre settimane. I 50 paesi che vi parteciparono ridisegnarono i caratteri di un nuovo ordine mondiale destinato a durare per un quarto di secolo.
Paragonate questo evento ai calci dietro una lattina vuota che le istituzioni europee tirano giù per il pendìo da oltre un mese, e che proseguiranno fino al 2021. Così capirete se il mondo che ci aspetta si profila all’ altezza della sua retorica.
Siamo in tempi eccezionali, evvero, ma tutto fa pensare che non ci saranno risposte eccezionali

https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-pino_arlacchi__il_nuovo_ordine_mondiale_che_non_ci_sar/82_34480/

 

L’anomalia italiana è la Lombardia

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Il Fatto Quotidiano, 9 Aprile 2020

L’anomalia dell’alto numero di decessi italiani per coronavirus rispetto a quelli del resto del mondo si spiega con il nostro metodo di classificazione. Esso considera morti per Covid-19 tutti i deceduti di polmonite, arresto cardiaco, cancro, etc. che abbiano contratto anche il coronavirus. In quasi tutti gli altri Paesi il virus non viene computato come causa di morte a meno che esso non ne sia stato la causa esclusiva. Adottando il criterio di separare i decessi da quelli da virus l’anomalia sparisce e l’impatto del virus si riduce di circa 10 volte. Ma così facendo si incorre in un grave errore di sottovalutazione: l’attacco del virus a un paziente già debilitato da una o più patologie può essere l’elemento scatenante della crisi finale. È impossibile, in definitiva, isolare il suo specifico input in chi soffriva di più malattie. Non esiste quindi una soluzione clinica al problema della effettiva letalità del Covid. Ma esiste una soluzione di tipo statistico, che include anche le morti “nascoste”. Ho sottolineato che sarebbe occorso uno sforzo ad hoc dell’Istat, convincendola a fornire i dati della mortalità generale in tempo reale invece di farci attendere due anni. Pochi giorni fa l’Istat ha iniziato finalmente a pubblicare una prima tranche di dati sui deceduti tra il primo di gennaio e il 21 marzo di quest’anno mettendoli a confronto con quelli del 2015-19.

Cosa ne risulta? Ne risulta una impennata della mortalità che inizia dalla fine di febbraio e prosegue in marzo. È una brusca inversione di tendenza, perché nei primi due mesi di quest’anno i decessi erano stati inferiori a quelli osservati nel 2019. Fin qui l’Istat. Ma un’altra fonte di pari attendibilità, il network SiSMG che fa capo alla Regione Lazio, ci consente di fare un ulteriore passo avanti. Il network raccoglie i dati di mortalità in 19 città italiane e li pubblica rapidamente. Ne risulta un eccesso del 29% – pari a 15.300 morti a livello nazionale nello scorso mese di marzo.

Sono tante o sono poche 15.300 vittime? Sono poche solo per chi decide di ignorare il fatto che esse sono il pedaggio che abbiamo pagato al virus nonostante un intervento molto aggressivo di contrasto. I dati Istat e SiSMG danno inoltre solida conferma di un’altra caratteristica di fondo dell’epidemia italiana: la sua esasperata concentrazione territoriale. Nell’Italia del Nord si concentra quasi il 90% dei morti, e il 60% nella sola Lombardia. L’aumento nel Nord rispetto alla media quinquennale è del 47%, contro il solo 8% nel Centro-sud. A Roma e Palermo lo scarto di mortalità è quasi nullo (1 e 2%).

La scarsa incidenza della letalità del Covid al Sud si deve all’effetto congiunto della distanza geografica dai principali focolai dell’infezione e dell’orientamento Nord-Sud della penisola. La latitudine/temperatura indebolisce il virus. È il caso Lombardia, allora, la vera anomalia italiana. Come ha fatto il virus a radicarsi così profondamente nella regione, e in contrasto così clamoroso con la situazione del Veneto, regione contigua, e simile alla Lombardia per struttura demo-economica? Qui i decessi dovuti al virus sono 7 volte inferiori a quelli della Lombardia.

Tra le varie spiegazioni, la più convincente può essere quella di un fatale errore di politica sanitaria commesso dalla Regione Lombardia fin dall’inizio della crisi. Si è ospedalizzata subito la maggioranza dei contagiati, e lo si è fatto ricoverandoli in edifici dotati di impianti di aerazione obsoleti. Questi si sono trasformati in centri di contagio intensivo sia del personale sanitario (strage di medici e infermieri) che dell’intera popolazione. Il Veneto ha seguito la direzione opposta, non ricoverando se non i pazienti gravi e lasciando gli altri a casa o in presidi sanitari decentrati e di piccole dimensioni.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/04/09/lanomalia-italiana-e-la-lombardia/5764881/

 

Arlacchi: «A Miami i soldi della corruzione venezuelana"

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Il Periodista, 1 Aprile 2020

di Ruggero Tantulli. Il Periodista ha chiesto a Pino Arlacchi, ex vicesegretario dell'Onu e architetto della strategia antimafia italiana, il punto sulla situazione in Venezuela. Dal «più grande caso di corruzione della storia», scoperchiato dal governo bolivariano, alla "maledizione del petrolio", fino alle accuse di narcotraffico rivolte dagli Usa a Nicolás Maduro, prive di qualsiasi riscontro. Al contrario, quello che emerge è un fiume di denaro che corrompe i funzionari pubblici e finisce dritto nelle banche della Florida. A questo si aggiungono le sanzioni statunitensi e cinque miliardi di risorse venezuelane sequestrate senza alcuna base legale dalle banche internazionali. Oltre al bolívar, la valuta locale, completamente deprezzata dalle speculazioni delle agenzie di rating. «È un tentato genocidio»

«Maduro narcoterrorista? Spazzatura politica priva di alcun fondamento. I veri problemi del Venezuela sono le aggressioni Usa e la corruzione, che il governo sta combattendo seriamente. E sa dove finiscono i profitti della corruzione? Nelle banche di Miami».Lo dice il massimo esperto di antidroga del mondo, Pino Arlacchi, intervistato da ilPeriodista.Le accuse del procuratore generale statunitense William Barr, secondo cui il presidente del Venezuela e alcuni suoi funzionari di più alto livello sarebbero a capo di un cartello della droga, in concorso con due ex capi delle Farc (Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia), che avrebbe «inondato gli Usa di cocaina dal 1999 a oggi», non hanno destato alcuna reazione negli ambienti internazionali.«Sono falsità clamorose - commenta Arlacchi -, in oltre 40 anni ai vertici dell’antidroga mondiale non mi è mai capitato di dovermi occupare di Venezuela: non si trova un solo rigo nei documenti Onu e nemmeno della Dea statunitense».
Calabrese di Gioia Tauro, 69 anni, dal 1997 al 2002 Arlacchi è stato vicesegretario generale dell’Onu - il segretario generale era Kofi Annan - e direttore esecutivo dell’Undcp, l’Ufficio per il controllo delle droghe e per la prevenzione del crimine delle Nazioni Unite.Professore ordinario di Sociologia, già deputato, senatore e parlamentare europeo, Pino Arlacchi è stato l'architetto della strategia antimafia italiana degli anni '80 e ’90.Grande amico di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, Arlacchi è stato presidente onorario della Fondazione Falcone e ha redatto il progetto esecutivo della Dia (Direzione investigativa antimafia). Quando Totò Riina fece i nomi dei suoi tre principali nemici, uno era lui, «quell'Arlacchi che scrive libri» .Tra i risultati delle sue attività a livello internazionale, l'approvazione della Convenzione di Palermo contro la criminalità transnazionale e la drastica riduzione delle colture di coca e di oppio da eroina, come nell’Afghanistan pre-11 settembre 2001: un lavoro vanificato dall’invasione statunitense, che ha permesso ai signori della guerra di riprendere a controllarne la produzione e l’esportazione. Da qualche mese, Arlacchi è consigliere del governo Maduro per riformare il sistema giudiziario venezuelano. Un servizio che il sociologo ha già svolto in passato in diversi Paesi, come il Brasile di Luiz Inácio Lula, la Romania e il Messico, sia per quanto riguarda l’attività anticrimine sia per l’antiriciclaggio. «Sempre a titolo gratuito - ci tiene a precisare -. Non ho altri scopi se non quello di aiutare a combattere la grande criminalità i governi che ne hanno bisogno. Ma mi faccia dire una cosa che non ho ancora detto e trovo importante».

Prego.«In Venezuela il principale problema non è la criminalità organizzata ma la corruzione. Il tasso di corruzione è sempre stato molto alto, più dell’Italia pre-Mani pulite. È facile, visto l’andazzo, dare la colpa al governo Maduro, ma non è così».

Perché?«Innanzitutto il sistema venezuelano è federale e decentrato: molti Stati e molte autorità locali sono governati dalla cosiddetta opposizione, quindi la corruzione si spalma su tutto il sistema politico e non solo su quello filogovernativo. La mia proposta iniziale, quando ho accettato l’incarico di consigliere, era di occuparmi di riformare il sistema giudiziario dal lato anti criminalità organizzata. Il presidente Nicolás Maduro, invece, mi ha chiesto di correggere il focus del mio lavoro e concentrarmi sulla lotta alla corruzione. I grandi gruppi della corruzione in Venezuela, infatti, sono strettamente collegati alla politica, in gran parte di opposizione, che è legata agli Usa. I profitti della grande e media corruzione in Venezuela, che prima di Hugo Chávez era una corruzione universale, finivano e finiscono tutti nelle banche di Miami».

Quindi i profitti della corruzione venezuelana finiscono negli Stati Uniti?«Esatto. Il tema fondamentale è il collegamento con i riciclatori americani, con un pezzo del sistema finanziario americano. Maduro ha tentato di combattere la corruzione di più alto livello come non mai e anche per questo viene messo sotto accusa».

Cos’ha fatto il governo per combattere la corruzione?«In due ondate successive ha colpito tutta la dirigenza di PDVSA, la società petrolifera di Stato, che era il principale centro della corruzione in Venezuela. Tutti i vertici sono stati scoperti, sostituiti e incriminati. Si tratta di personaggi, ahimè, nominati dieci anni prima da Chávez, che inizialmente ha un po’ sottovalutato la corruzione, perché il problema non appariva così evidente. Per oltre dieci anni, fino a tre anni fa, questi ladri hanno depredato l’azienda petrolifera e lo Stato, prendendo una tangente di oltre il 10% su tutte le vendite del petrolio. Questo è stato il più grande caso di corruzione della storia, con profitti per oltre 50 miliardi di dollari, ovvero la metà del PIL attuale del Venezuela».

Sono stati arrestati?«Molti di questi dirigenti sono fuggiti all’estero: un po’ negli Usa, un po’ in Europa. E ovviamente sono diventati un focolaio di opposizione politica antigovernativa molto potente, che corrompe giornali, politici e giornalisti. I tentativi del procuratore anticrimine del Venezuela di farli arrestare ed estradare sono finiti nel vuoto perché molti si sono trasformati in “pentiti” oppositori: l’Interpol considera le accuse contro di loro come politicamente motivate, invece che dar seguito alle richieste di cooperazione internazionale. Il governo Maduro, inoltre, ha smantellato un altro grande centro di corruzione legato all’ex fiscal general (procuratrice generale, ndr) Luisa Ortega, che faceva il bello e il cattivo tempo a livello nazionale, gestendo corruzione e racket estorsivo ad altissimo livello. Incriminata, Ortega è scappata con il bottino in Colombia, da dove spara a zero sul governo, dichiarandosi esule politica».

Venendo alle accuse di narcoterrorismo per Maduro e i suoi, lei ha parlato di «spazzatura politica». Perché?«E lo confermo: sono accuse assurde. Mi occupo di droga da più di 40 anni, ho scritto un po' di libri sul tema e sono stato ai vertici dell’antidroga mondiale. Non mi è mai capitato di dovermi occupare di Venezuela e non l’ho mai visitato quando ero all’Onu perché non ce n’era bisogno. Sono falsità clamorose: non c’è un solo rigo sul traffico di droga dal Venezuela agli Usa nei documenti americani e dell’Onu. Sono andato a rileggere tutti gli ultimi rapporti della Dea (Drug Enforcement Administration, ndr). L'ultimo è di tre mesi fa. La produzione e le rotte sono quelle classiche».

Quali?«La produzione mondiale di cocaina è, grosso modo, così ripartita: in Colombia il 70%, in Perù il 20% e in Bolivia il restante 10%. La mediazione per arrivare negli Stati Uniti, che sono il principale mercato di consumo del mondo, avviene attraverso i narcos messicani, ma questo lo sanno anche i bambini. Dal lato del Pacifico ma anche dei Caraibi. Una rotta più marginale, poi, passa per Ecuador e Guatemala, quindi per l’America centrale. Ma questi sono tutti dati conosciutissimi, infatti nessuno sta prendendo sul serio queste accuse, nemmeno chi è contro Maduro».

È, quindi, l’ennesimo tentativo di ingerenza o di colpo di stato? «Certo, è una guerra non convenzionale. Gli americani non possono più fare colpi di stato “alla vecchia maniera” con la Cia e i marines, anche perché Maduro ha un ottimo sistema di intelligence e protezione personale. Tentativi, comunque, ne sono stati fatti e ne vengono fatti, ma senza successo. Gli Usa non riescono a sottomettere il Venezuela anche perché con Guaidó hanno scelto una strategia totalmente sbagliata. Juan Guaidó è adesso totalmente isolato. Il blocco economico e finanziario non sta portando alla ribellione contro il governo. Scartata l’invasione militare, quindi, non resta che il character assassination, l’assassinio morale. Ma queste accuse sono un colpo a vuoto per qualunque osservatore obiettivo, un colpo che finirà per rafforzare l'idea che il Venezuela sia vittima di una aggressione da parte degli Stati Uniti».

Per quanto le forze armate venezuelane siano fedeli a Maduro, l’invasione militare non è un’opzione possibile? «L’invasione non è attuabile, perché gli esperti di sicurezza al Pentagono sanno che la forza di Maduro risiede in un esteso consenso popolare, che coinvolge le forze armate. Queste sono un esercito popolare, e non un’entità distinta e contrapposta ai cittadini. A differenza della Bolivia, dove Evo Morales è caduto perché non ha riformato esercito e polizia. L’invasione del Venezuela, hanno ipotizzato i pianificatori militari, inizierebbe come l’Iraq e finirebbe come il Vietnam».

Il procuratore generale Barr, però, ha esplicitamente accostato Maduro a Manuel Noriega, rievocando l’invasione di Panama del 1989.«Con la differenza che Noriega era un loro uomo senza alcun sostegno dal basso. Era un fantoccio di cui si sono sbarazzati quando ha iniziato a disobbedire ai loro ordini. Panama a quei tempi era la classica repubblica delle banane. Il caso del Venezuela è completamente differente. L’operazione militare sarebbe destinata al fallimento, anche perché nel Paese ci sono sette milioni di chavisti, molti dei quali pronti a prendere le armi per difendere il loro Paese, e un esercito molto attrezzato e motivato politicamente. E ciò è perfettamente noto al Pentagono, che sconsiglia qualunque invasione».

La situazione economica del Venezuela, comunque, è di grande difficoltà. A cosa è dovuta?«Per l’80% è dovuta alle sanzioni statunitensi, poi all’ennesimo crollo del prezzo del petrolio. Il modello-Chávez poggiava anche sull'alto prezzo del petrolio».

Ma com’è possibile che, pur avendo molte altre materie prime, il Venezuela dipenda ancora così tanto dal petrolio?«Questo è il più grande limite di Chavez, continuato con Maduro: non essersi liberati della “maledizione del petrolio” e non aver costruito un’economia indipendente dagli idrocarburi. Il Venezuela è un Paese pieno di risorse. Potrebbe essere ricco senza petrolio: ha le seconde riserve mondiali di oro, e poi coltan, ferro etc. Ma a parte le risorse naturali, che hanno sempre il problema di dipendere dalla fluttuazione dei mercati mondiali, il Venezuela avrebbe tutto: c’è talmente tanta acqua, per esempio, che l'energia elettrica per uso interno viene generata da centrali idriche non alimentate a petrolio. Poi ci sono l’agricoltura, il turismo, le industrie manifatturiere… Il grande piano di conquista dell'indipendenza economica non è stato ancora fatto, ed è quello che sto cercando di suggerire al Paese. Un piano di sovranità economica per uscire in dieci anni dalla “maledizione del petrolio”».

Quali sono le conseguenze concrete delle sanzioni statunitensi?«Le sanzioni riducono al minimo l’accesso del Venezuela ai mercati internazionali. Grazie a India, Cina e Russia il Paese riesce a sopravvivere, ma gli introiti della vendita del petrolio sono passati da 50 miliardi di dollari di dieci anni fa ai cinque di adesso. Le conseguenze, quindi, sono il crollo del PIL e un’emigrazione notevole, per un Paese caratterizzato da alti tassi di immigrazione».

Quanti sono gli emigrati venezuelani negli ultimi anni?«Circa tre milioni negli ultimi cinque anni. C’è anche da dire, però, che le rimesse degli emigrati riequilibrano la perdita. In ogni caso sono un diretto prodotto della guerra economica contro il Venezuela. Nonostante tutto, il 70% del bilancio dello Stato è spesa sociale e ciò si traduce in sostegno diretto ai poveri, come il programma CLAPS di distribuzione regolare di generi alimentari destinati alla maggioranza delle famiglie venezuelane».

Lo Stato sociale chavista resiste?«È come una macchina con poco carburante. Molto avanzato, ma con risorse limitate. Prima di Chávez non esisteva lo Stato sociale. Non esistevano le pensioni! I soldi derivanti dal petrolio finivano tutti nelle banche americane. Il Venezuela pre-Chávez era governato da un'odiosa oligarchia: lo Stato era ridotto al minimo, garantiva solo alcuni servizi essenziali. Chávez ha fatto diminuire grandemente la povertà, azzerato l’analfabetismo e nazionalizzato le industrie petrolifere, quelle che Trump e soci vorrebbero riconsegnare ai vecchi proprietari e alle compagnie americane».

Cosa succederebbe se gli Usa tornassero padroni del Venezuela?«Tornerebbe a spadroneggiare l’élite compradora"che campa all’ombra dello Zio Sam. Lo Stato sociale creato dal chavismo verrebbe distrutto. Le condizioni di vita della popolazione del Paese verrebbero devastate. E la gente è consapevole di ciò. Infatti, le sanzioni non spingono a ribellarsi contro il governo, ma lo rafforzano. Gli americani non vogliono elezioni in Venezuela perché sanno che il risultato sarebbe favorevole al governo attuale, come nelle 24 volte precedenti. Vogliono che Maduro se ne vada senza elezioni, così possono impiantare un regime fantoccio. Ma questo piano è destinato al fallimento anche perché, per fortuna, il mondo ormai è multipolare».

Lei ha parlato di una «rapina da cinque miliardi di dollari delle risorse finanziarie del Venezuela depositate nelle banche di 15 Paesi». Di cosa si tratta?«Le principali banche internazionali hanno obbedito come un sol uomo all’ordine del Tesoro americano di congelare i soldi depositati presso di loro dal Venezuela. Il sequestro è illegale perché in nessuno di questi Paesi è avvenuto su ordine della magistratura. Se mettiamo insieme le sanzioni economiche, il blocco finanziario e la distruzione della moneta nazionale, il bolívar, tramite l'iperinflazione indotta, beh, siamo vicini a ciò che nel diritto internazionale si chiama tentato genocidio».

La crisi in corso riguarda anche la moneta, appunto. Un commento sulla dollarizzazione?«Questo è un danno forse altrettanto grave delle sanzioni. Hanno distrutto il bolívar e quindi la sovranità monetaria del Venezuela, dove ora è il dollaro che impera. Un’azione criminale intrapresa con la complicità delle società di rating americane da un gruppo di speculatori che pubblicano regolarmente le quotazioni del mercato nero della valuta a sfavore del bolívar e a favore del dollaro. La fiducia nella valuta nazionale è crollata, e il Paese ha pagato un prezzo altissimo per questo».

È vero che il Fondo monetario internazionale ha negato un finanziamento al governo Maduro«È vero che Maduro si è rivolto al Fmi chiedendo un finanziamento di emergenza, ma la risposta ancora non è certa. Solo gli Usa si oppongono frontalmente, l’Ue è favorevole. Staremo a vedere».

https://www.ilperiodista.it/post/arlacchi-a-miami-i-soldi-della-corruzione-venezuelana-anti-maduro

 
 

Cina e Stati Uniti: la grande sfida alla pandemia mondiale

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Il Fatto Quotidiano, 30 Marzo 2020

Pechino ha preso il problema per le corna, scegliendo la guerra al Covid. Una decisione vincente: in poche settimane sono riusciti a governare la crisi. Anche Trump ha fatto retromarcia (per il voto alle porte), stanziando tanti soldi

L’allarme sul Coronavirus non è stato creato da alcun complotto. È iniziato come effetto di uno scontro “in automatico” tra sistemi politici e informativi divergenti che non hanno bisogno di alcuna intenzionalità per tentare di sfruttare a proprio vantaggio ogni vulnerabilità dell’ avversario. Le cose potrebbero essere andate così:

a) La nascita di un focolaio epidemico in una megalopoli cinese ha fornito l’occasione per assestare un bel colpo al prestigio e alla credibilità del regime di Xi Jinping. Tra la fine di gennaio e l’inizio di febbraio il governo di Pechino è stato messo sotto processo, accusato di non essere in grado di proteggere la salute dei cinesi – e di riflesso quella del resto del mondo – di fronte ad una epidemia che avrebbe presto assunto proporzioni bibliche.

b) Xi Jinping e l’elite comunista avevano a questo punto due scelte. La prima era quella di dichiarare che era tutta una montatura anticinese, e che si trattava di un’ influenza stagionale la cui letalità si sarebbe dimostrata irrisoria rispetto ai numeri della popolazione. La forza del sistema si sarebbe allora dispiegata nel nascondere i dati, sopprimere singole voci di allarme, silenziare autorità locali e media. Ed è innegabile che questa inclinazione sia stata molto forte ed abbia dominato il primo stadio della pandemia, quando chi lanciava gli allarmi, come il famoso medico di Wuhan, veniva perseguitato e zittito.

Pur non essendo più il paese totalitario della rivoluzione culturale e degli eccessi maoisti, la Cina di oggi è un paese solidamente autoritario, perfettamente in grado di attuare una linea di negazione della pandemia. Bastava perciò non fare nulla di concreto contro di essa, mettersi alla cappa ed aspettare l’arrivo dell’estate con l’inevitabile, connesso calo di contagiati e morti. Con una popolazione di un miliardo e 400 milioni, si sarebbe trovato il modo di giustificare anche decine di migliaia di decessi.

c) In una fase susseguente, tuttavia – e in seguito a un travaglio interno al partito comunista sul quale è trapelato ben poco – è prevalsa però la scelta opposta. La nuova potenza mondiale aveva deciso di essere abbastanza forte da prendere il toro per le corna.

Contrordine, compagni. La linea adesso era diventata quella di aderire alla narrativa sul Coronavirus appena creata in Occidente, e di imbarcarsi in una sfida a tutto campo. Se la posta in gioco era la capacità di governo della Cina post-Deng Xiaoping, la partita, whatever it would take, si sarebbe giocata. I rischi erano estremi. E il costo della vittoria successiva, conseguita in sole quattro settimane, si è rivelato molto grande in termini economici. Ma è questo successo che consente oggi alla Cina di presentarsi al mondo come una potenza non minacciosa, rispettosa del multilateralismo e degli standard minimi della solidarietà internazionale.

d) La palla è ora rimbalzata nel campo dal quale era provenuta, con l’Oms che definisce gli Stati Uniti come il potenziale epicentro della pandemia globale, e con Trump alle prese con lo stesso identico dilemma affrontato da Xi Jinping solo qualche mese prima: accettare la sfida o svicolare da essa disconoscendone entità e significato? Anche la posta in gioco è simile, viste le elezioni presidenziali alle porte e i dubbi ormai dilaganti sulla capacità degli Usa di guidare l’Occidente. Un’entrata in guerra della potenza americana alla testa di una grande coalizione, con strategie e risorse all’altezza del nemico da combattere, viene in effetti evocata dai nostalgici dei bei vecchi tempi.

e) Ma Trump non appare affatto interessato a percorrere questa strada. Dopo un iniziale tentennamento, sembra avere abbracciato la scelta di ripiego, minimizzando la gravità della tragedia: è in atto la solita influenza, che forse non arriverà neppure ad uccidere i 27-70mila americani di ogni anno. Per lui ci sono altre priorità. Calcolo solo elettorale, e virtualmente disastroso? Oppure fredda valutazione delle reali chances di successo immediato in un conflitto in cui, una volta scesi in campo, le due armi più potenti dell’impero – il dollaro e le forze armate – servirebbero a ben poco? Un confronto dove l’arretratezza americana – in termini di assenza di servizi sanitari universali, estremo individualismo e debole senso della collettività – costituirebbe un handicap devastante?

f) La posizione di Trump ha una logica da non sottovalutare, rafforzata dallo storico piano di sostegno dell’economia appena varato che contiene misure che trasferiscono risorse direttamente ai cittadini: un bonus pre-elettorale di 13mila dollari totali a ciascuna famiglia americana di quattro persone. Misure ovviamente molto popolari, rivolte a tutti i votanti, e suscettibili di compensare, nei disegni della Casa Bianca, le ansie generate dalla veloce crescita dei contagi.

Ma l’esito finale della partita Usa contro il virus resta comunque molto incerto. Perché in scena non ci sono solo i cinici calcoli del Presidente. Ci sono anche la progressione di un’epidemia non contrastata, l’industria mediatica ed i governatori degli stati che considerano l’emergenza sanitaria come una priorità assoluta. Una loro retromarcia è molto improbabile.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/03/30/cina-e-stati-uniti-la-grande-sfida-alla-pandemia-mondiale/5753575/

 


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