Il Fatto Quotidiano, 30 Marzo 2020
Pechino ha preso il problema per le corna, scegliendo la guerra al Covid. Una decisione vincente: in poche settimane sono riusciti a governare la crisi. Anche Trump ha fatto retromarcia (per il voto alle porte), stanziando tanti soldi
L’allarme sul Coronavirus non è stato creato da alcun complotto. È iniziato come effetto di uno scontro “in automatico” tra sistemi politici e informativi divergenti che non hanno bisogno di alcuna intenzionalità per tentare di sfruttare a proprio vantaggio ogni vulnerabilità dell’ avversario. Le cose potrebbero essere andate così:
a) La nascita di un focolaio epidemico in una megalopoli cinese ha fornito l’occasione per assestare un bel colpo al prestigio e alla credibilità del regime di Xi Jinping. Tra la fine di gennaio e l’inizio di febbraio il governo di Pechino è stato messo sotto processo, accusato di non essere in grado di proteggere la salute dei cinesi – e di riflesso quella del resto del mondo – di fronte ad una epidemia che avrebbe presto assunto proporzioni bibliche.
b) Xi Jinping e l’elite comunista avevano a questo punto due scelte. La prima era quella di dichiarare che era tutta una montatura anticinese, e che si trattava di un’ influenza stagionale la cui letalità si sarebbe dimostrata irrisoria rispetto ai numeri della popolazione. La forza del sistema si sarebbe allora dispiegata nel nascondere i dati, sopprimere singole voci di allarme, silenziare autorità locali e media. Ed è innegabile che questa inclinazione sia stata molto forte ed abbia dominato il primo stadio della pandemia, quando chi lanciava gli allarmi, come il famoso medico di Wuhan, veniva perseguitato e zittito.
Pur non essendo più il paese totalitario della rivoluzione culturale e degli eccessi maoisti, la Cina di oggi è un paese solidamente autoritario, perfettamente in grado di attuare una linea di negazione della pandemia. Bastava perciò non fare nulla di concreto contro di essa, mettersi alla cappa ed aspettare l’arrivo dell’estate con l’inevitabile, connesso calo di contagiati e morti. Con una popolazione di un miliardo e 400 milioni, si sarebbe trovato il modo di giustificare anche decine di migliaia di decessi.
c) In una fase susseguente, tuttavia – e in seguito a un travaglio interno al partito comunista sul quale è trapelato ben poco – è prevalsa però la scelta opposta. La nuova potenza mondiale aveva deciso di essere abbastanza forte da prendere il toro per le corna.
Contrordine, compagni. La linea adesso era diventata quella di aderire alla narrativa sul Coronavirus appena creata in Occidente, e di imbarcarsi in una sfida a tutto campo. Se la posta in gioco era la capacità di governo della Cina post-Deng Xiaoping, la partita, whatever it would take, si sarebbe giocata. I rischi erano estremi. E il costo della vittoria successiva, conseguita in sole quattro settimane, si è rivelato molto grande in termini economici. Ma è questo successo che consente oggi alla Cina di presentarsi al mondo come una potenza non minacciosa, rispettosa del multilateralismo e degli standard minimi della solidarietà internazionale.
d) La palla è ora rimbalzata nel campo dal quale era provenuta, con l’Oms che definisce gli Stati Uniti come il potenziale epicentro della pandemia globale, e con Trump alle prese con lo stesso identico dilemma affrontato da Xi Jinping solo qualche mese prima: accettare la sfida o svicolare da essa disconoscendone entità e significato? Anche la posta in gioco è simile, viste le elezioni presidenziali alle porte e i dubbi ormai dilaganti sulla capacità degli Usa di guidare l’Occidente. Un’entrata in guerra della potenza americana alla testa di una grande coalizione, con strategie e risorse all’altezza del nemico da combattere, viene in effetti evocata dai nostalgici dei bei vecchi tempi.
e) Ma Trump non appare affatto interessato a percorrere questa strada. Dopo un iniziale tentennamento, sembra avere abbracciato la scelta di ripiego, minimizzando la gravità della tragedia: è in atto la solita influenza, che forse non arriverà neppure ad uccidere i 27-70mila americani di ogni anno. Per lui ci sono altre priorità. Calcolo solo elettorale, e virtualmente disastroso? Oppure fredda valutazione delle reali chances di successo immediato in un conflitto in cui, una volta scesi in campo, le due armi più potenti dell’impero – il dollaro e le forze armate – servirebbero a ben poco? Un confronto dove l’arretratezza americana – in termini di assenza di servizi sanitari universali, estremo individualismo e debole senso della collettività – costituirebbe un handicap devastante?
f) La posizione di Trump ha una logica da non sottovalutare, rafforzata dallo storico piano di sostegno dell’economia appena varato che contiene misure che trasferiscono risorse direttamente ai cittadini: un bonus pre-elettorale di 13mila dollari totali a ciascuna famiglia americana di quattro persone. Misure ovviamente molto popolari, rivolte a tutti i votanti, e suscettibili di compensare, nei disegni della Casa Bianca, le ansie generate dalla veloce crescita dei contagi.
Ma l’esito finale della partita Usa contro il virus resta comunque molto incerto. Perché in scena non ci sono solo i cinici calcoli del Presidente. Ci sono anche la progressione di un’epidemia non contrastata, l’industria mediatica ed i governatori degli stati che considerano l’emergenza sanitaria come una priorità assoluta. Una loro retromarcia è molto improbabile.