Il Domani, 7 set.2010
di Alessandro Caruso
Roma - «Tonino non lo riconosco più», con questa motivazione l’eurodeputato calabrese dell’Italia dei Valori Pino Arlacchi ha preso la decisione di autosospendersi dal partito che lo ha fatto eleggere a Strasburgo. Una frattura, questa, che rischia di segnare una profonda virata di una frangia del partito dipietrista. La deriva “estremistica”, sfociata nella dura contestazione al presidente del Senato Renato Schifani alla festa nazionale del Pd a Torino da cui Di Pietro non ha preso le distanze, non convince più Arlacchi, non lo rappresenta. Da qui il divorzio. Il giustizialismo gridato, l’avvicinamento alle posizioni dei cosiddetti “grillini”, come ha spostato Arlacchi, rischia di spostare altre fonti di consenso nel partito, specialmente in Calabria, dove l’elettorato è stato messo negli ultimi tempi a dura prova anche da altri scossoni: le divergenze tra il “leader maximo” Di Pietro e l’opinion leader Luigi De Magistris e il ritorno, dopo una fase di relativa calma, ai toni più duri e battaglieri, come emerso dall’ultimo congresso provinciale di Catanzaro.
Una cosa è certa per Arlacchi, come emerso dall’intervista rilasciata al Corriere della Sera: « Inseguire quelle posizioni estreme, gliel’ho detto più volte (a Di Pietro, ndr) non paga. E allontana il progetto di rendere l’IdV un grande partito di popolo capace di parlare a tutti. Si sta cacciando in un cul de sac. Per questo mi autosospendo. E finché non vedo un’inversione di rotta non torno indietro».
L’episodio che ha fatto irritare Arlacchi si è svolto sabato scorso a Torino quando, nel momento un cui ha preso la parola Schifani, ospite d’onore della festa nazionale del Pd, è partita una contestazione verbale molto violenta. L’accusa era racchiusa nello slogan scandito dai manifestanti: fuori la mafia dallo Stato. Un’accusa, però, definita da Arlacchi troppo approssimativa.
«Sono lontano anni luce da Renato Schifani, mi batto da una vita contro gli ambienti geopolitici da cui proviene il presidente del Senato. Non l’avrei mai invitato a nessun dibattito, inutile dirlo. Però – e qui è il punto focale per Arlacchi – fino a che non ci saranno prove certe emerse da procedure democratiche e nel pieno rispetto dei suoi diritti costituzionali, Schifani non può essere etichettato e additato al pubblico ludibrio come mafioso e non può né essere insultato né zittito. Se si trova in un’occasione pubblica ha il diritto di parlare. Vale per qualunque cittadino. Chi ignora queste cose, distrugge la credibilità di ogni lotta per la legalità».
Questo tipo di antimafia, definita nell’intervista intollerante e demagogica, non piace ad Arlacchi. E il suo parere è frutto di esperienza ultradecennale in questo campo. Lui, sociologo e amico dei giudici Falcone e Borsellino, figlio di una certa cultura del contrasto alla criminalità organizzata, proprio non vuole saperne di clima dell’odio di sentenze affidate alle credenze popolari: «Se c’è un merito del movimento antimafia italiano – ha riconosciuto Arlacchi – è quello di aver sempre rifiutato qualunque forma di protesta violenta e incivile. Dalla sua stessa nascita, negli anni Quaranta, fino a quando negli anni Novanta è diventato movimento di massa, era ben presente un filo comune: nessuna concessione alla violenza fisica e verbale. È sempre stato un movimento democratico guidato da persone illuminate che hanno saputo incanalare la giusta incazzatura della gente nell’alveo democratico». Resta da vedere quale sarà il suo seguito.