l'Unità, 3 gen. 2010
L'Editoriale di Pino Arlacchi
Un problema di estradizione si può affrontare in molti modi, ma la strada scelta dal governo italiano sul caso Battisti è, tra tutte, quella che porta alla sconfitta più sicura. La strada demagogico-nazionalista, l’alzare la voce lanciando minacce poco credibili e messaggi offensivi a un governo, a un popolo e a un Paese tra i più amici come il Brasile non porta da nessuna parte.
Se avesse voluto davvero ottenere il rimpatrio del signor Battisti, senza aspettare l’ultimo minuto e l’esplosione del caso sui giornali, il nostro governo avrebbe dovuto fare tre cose: a) dare per tempo le opportune istruzioni alle macchine diplomatiche e giuridiche; b) ascoltare con attenzione e rispetto il punto di vista del governo brasiliano; c) sulla base di quel punto di vista, attivarsi per correggere sia la strategia tecnico-diplomatica sia la comunicazione.
Sarebbe bastato chiarire bene all’opinione pubblica di una nazione che proviene da una feroce dittatura che Battisti è un semplice assassino e non un combattente antifascista. Sarebbe bastato intraprendere una parallela campagna di sensibilizzazione del Parlamento e della stessa magistratura brasiliana rispondendo alle loro perplessità, fugando i loro dubbi sulla eccessiva severità della giustizia penale nostrana (vi sembra così difficile argomentarlo, in un paese in cui in carcere ormai ci restano solo i poveri e gli immigrati?).
Si sarebbe potuta cogliere l’occasione per trasformare una crisi in una opportunità, approfondendo l’empatia e il dialogo con interlocutori che non chiedono altro. Invece di muoversi in questa direzione, e di ottenere il risultato voluto, i dilettanti allo sbaraglio che ci governano sono riusciti a infilare un errore dietro l’altro, danneggiando un antico rapporto di amicizia, irritando con vacue minacce una potenza con cui dobbiamo fare i conti ogni giorno di più, e vanificando le chances di offrire giustizia alle vittime del terrorismo assassino e a tutti noi.
La minaccia di ritorsioni sugli accordi economici italo-brasiliani è la più ridicola. È un’arma spuntata, che si usa sempre di meno, anche contro i regimi più antidemocratici. E meno che mai si usa con quelli amici e alleati. Nel caso del Brasile, poi, non può portare ad altro che alla sostituzione dell’Italia con un altro partner, visto che nella maggior parte degli scambi commerciali è il Brasile a comprare e noi a vendere.
Non so a chi sia venuto in mente mescolare affari e cooperazione giudiziaria con il Brasile, ma è una linea dissennata e stravagante che un ministro degli Esteri dotato di un minimo senso degli interessi nazionali non dovrebbe mai perseguire alla leggera o farsi imporre dal proprio governo.
Gli ex-camerati italiani che urlano contro il Brasile minacciando di tagliare i viveri non hanno idea di quel che dicono. Quel paese è ormai una potenza mondiale, una strepitosa storia di successo con un PIL vicino al nostro e quasi 200 milioni di abitanti. È la nazione leader di un intero continente, grazie a una classe dirigente e a un presidente socialista che in meno di un decennio ha saputo guidare il paese fuori dal Terzo Mondo rispettando democrazia e diritti umani, riducendo la criminalità e tirando fuori dalla povertà 24 milioni di persone.
Lula si è conquistato l’ammirazione universale per la qualità del suo progetto politico, e potete stare certi che Dilma Roussef ne seguirà le orme, perché nel frattempo il Brasile è avviato a diventare ciò che l’Italia non è riuscita a divenire: un “sistema paese”, le cui sorti non dipendono più dal carisma di un presidente fuori del comune. Il Brasile è oggi uno stato capace di trattare alla pari con le superpotenze, di condurre una sua politica estera promuovendo alleanze e soluzioni nuove ai problemi globali. Si può perciò immaginare quanto i governanti brasiliani si siano spaventati per gli ultimatum di Gasparri e La Russa.
La strada dell’insulto è seconda per stupidità solo a quella dell’intimidazione economica. I rapporti internazionali sono relazioni tra poteri sovrani. Prendere di petto un altro paese e trattarlo da vassallo su una questione spinosa, tecnica e politica come un caso di estradizione, rivela solo la voglia di perdere.
L’approccio del governo italiano al caso Battisti copre l’intenzione di nascondere qualcosa di imbarazzante. In primo luogo, la scandalosa inazione passata. La rinuncia a far valere l’interesse nazionale in una situazione complicata, certo, ma la cui soluzione sarebbe stata alla portata di una macchina giudiziaria e diplomatica appena decente.
Ottenere l’estradizione di un efferato criminale da un paese amico, e da un governo ben disposto alla collaborazione, un Brasile la cui élite è dopo quella argentina la più filo italiana delle Americhe, è un impresa da titani solo per il signor B. e il suo impareggiabile Frattini.
È il caso di dire che gli insuccessi seriali di politica estera hanno finito col dare alla testa al signor B e ai suoi seguaci. Ma cosa c’entra l’Italia, e cosa c’entriamo noi? Adesso ci tocca spiegarlo anche ai brasiliani.