Roma, 18 dic. 2014
di Pino Arlacchi
L’ orizzonte di quasi tutti i resoconti e i commenti occidentali sull’ ultima strage talebana non supera quello dell’ ufficio stampa della Casa Bianca o della retorica ufficiale dei governi: una nuvola di parole usurate e di circostanza. Emozioni tanto intense quanto brevi: indignazione, condanna. Poi si volta pagina e si passa ad altro.
Quasi nessuno cerca di capire davvero, di approfondire il cosiddetto “contesto” dei fatti più ampi, delle storie più lunghe entro cui collocare l’ evento abnorme che si ha di fronte.
L’ atrocità talebana resta così senza risposta. Un’ eruzione di male allo stato puro, incomprensibile, e perciò senza motivazioni su cui valga la pena di attardarsi.
Quest’ ultima brutalità ha invece una spiegazione razionale. E’ un atto pianificato ed eseguito con cura, come d’altra parte ogni episodio del grande male. Le follie criminali – ci insegnano le riflessioni più avanzate in materia di genocidi, massacri e mega-delinquenza – sono al servizio di progetti politici di dominio e di sopraffazione. Che possono apparire come deliri ( e in ultima analisi lo sono)ma liquidarli come semplici esplosioni di irrazionalità, odio e distruttività può essere molto pericoloso.
I talebani hanno dichiarato di essere perfettamente consapevoli di ciò che hanno fatto. Non hanno cercato di negare o minimizzare l’ orrore di 130 bambini sgozzati come capretti. Hanno ammesso il delitto, e fornito la più antica delle giustificazioni: la vendetta, l’ occhio per occhio e il dente per dente. La forma barbara della giustizia, di cui è pervaso il Vecchio Testamento. La rivalsa contro il genos del reo, eseguita secondo il principio della responsabilità collettiva. Siccome hai ucciso qualcuno dei miei, devi morire tu assieme a tutti i tuoi parenti, amici, concittadini. O perlomeno devi provare lo stesso dolore che abbiamo sofferto noi.
I capi talebani hanno rivendicato l’ attacco nei termini di una vendetta contro i metodi usati dall’ esercito pakistano nella sua campagna contro le basi terroristiche diffuse in tutto il Waziristan, iniziata a giugno di quest’anno, e che ha provocato quasi un milione di sfollati e rifugiati, in prevalenza donne e bambini. Poco o nulla sappiamo delle tattiche effettivamente usate dai militari pakistani in una delle zone più remote della terra. Sappiamo però da fonti governative che la campagna antiterroristica ha fatto largo uso di artiglieria e bombardamenti aerei, affiancati dai droni americani. Cose che non incoraggiano a pensare bene circa la sorte subita dalla popolazione civile residente in loco.
L’ operazione di “pulizia” del Waziristan è stata, a sua volta, accelerata da un attentato talebano, con 28 morti innocenti, avvenuto nell’ aeroporto di Islamabad. E così via, con la spirale della vendetta e del terrore che si avvita – e si avviterà sempre più nei prossimi mesi.
Che fare, allora? Non esiste, anche qui, alcuna possibilità di soluzione militare del problema. Il caso del Pakistan è ancora più chiaro, sotto questo profilo, di quello afghano. Prima di imbarcarsi in operazioni militari sproporzionate, mal calcolate e insostenibili come quella di cui stiamo parlando, occorre ammettere gli sbagli e cambiare le politiche.
Le forze armate pakistane e il loro governo hanno fatto il doppio gioco con l’ eversione talebana per venti anni. Tramite il loro servizio segreto, l’ ISIS, hanno tollerato, armato e protetto i talebani in funzione anti- afghana. Venendo a loro volta finanziati dagli USA, inizialmente per sostenere gli stessi talebani, e poi, dopo l’ 11 settembre, per combatterli.
I talebani afghani hanno trovato fino a ieri rifugio sicuro nelle retrovie pakistane. Bin Laden ha soggiornato, a lungo e in tutta tranquillità, in Pakistan. E il governo pakistano ha copertamente sabotato ogni tentativo afghano di negoziare una soluzione politica con i talebani. Varie volte mi sono trovato – durante il mio lavoro nell’ area come dirigente ONU – di fronte a sorprese del tutto inaspettate, e varie volte ho ricevuto le più convinte (e false) assicurazioni di collaborazione con la comunità internazionale da parte dei vertici pakistani.
Qual è allora l’ alternativa alla catena di atrocità che ci aspettano impazienti dietro l’ ultima efferatezza contro innocenti?
L’ alternativa esiste, ed è quella invocata più volte da chi conosce la regione. Cioè:
1. una lotta all’ insurrezione basata sulla rinuncia da parte del governo pakistano al terrorismo di stato, all’ uso dei droni e alla terra bruciata militare, capaci solo di portare a lutti e sciagure ulteriori.
2. il ritiro reale, e non simulato o temporaneo, del sostegno occulto ai talebani e agli altri gruppi da parte degli apparati statali pakistani.
3. La messa sotto controllo o l’ abolizione dell’ ISIS.
4. La mobilitazione dei capi religiosi islamici e della vivace società civile pakistana contro la tabe eversiva.
5. L’ abbandono una volta per tutte dell’ arrogante dottrina della “strategic depth”, cioè la continuazione del caos in Afghanistan, e la sua sostituzione con un programma di cooperazione e di alleanza sincere con l’ Afghanistan contro le forze del disordine.
Solo una svolta politica radicale come questa può togliere ossigeno al terrorismo, sconfiggere i talebani e stabilizzare la regione.