Il Fatto Quotidiano, 3 Marzo 2020
Nel giro degli ultimi dieci giorni le Borse mondiali, dopo essere cresciute del 24 per cento nel 2019, hanno messo a segno la più drastica contrazione degli ultimi 12 anni. È una bella botta, ma ha preso di sorpresa solo gli sprovveduti. I bruschi cambiamenti di umore dei mercati finanziari sono la quintessenza del capitalismo, e sono lo strumento con il quale lo smartmoney, la grande speculazione, spiazza i creduloni – “tosa il parco buoi” come si dice nel gergo borsistico milanese – e inizia a guadagnare scommettendo sul ribasso dei titoli dopo avere lucrato nella direzione opposta.
È un gioco pericoloso, perché l’oligarchia finanziaria globale non controlla in pieno i mercati, e se il crollo momentaneo sfugge loro di mano e si trasforma in una crisi generale, la prima vittima della valanga sono proprio i lupi di Wall Street e i loro compari in Europa e in Asia. Ma il gioco va avanti lo stesso perché è connaturato ai suoi attori principali. L’irrequietezza, la temerarietà e l’avidità incontrollata sono la cifra della finanza capitalistica fin dalle sue origini nelle città-Stato italiane del 1400.
Il pretesto per dare inizio alle danze viene fornito questa volta, con un tempismo sconcertante, proprio dal coronavirus. E proprio nel momento in cui l’epidemia viene sconfitta nel suo punto di massima concentrazione dall’azione risoluta del governo cinese. Nei prossimi mesi, perciò, le dinamiche da tenere sotto osservazione dovranno essere quelle dei mercati finanziari prima di quelle dell’epidemia. Questa non è il “cigno nero” economico evocato da esperti e giornalisti in cerca di facili effetti, cioè un evento negativo imprevedibile che scatena una catastrofe, ma la scusa per effettuare quella drastica correzione di ciclo prevista a destra e a manca da almeno un anno. Ci sono economisti come Rubin che si sono specializzati nel lanciare allarmi sull’imminente apocalisse dell’economia. E l’Economist avverte che la contrazione in corso non è altro che il riflesso della lunga “compiacenza” delle piazze finanziarie verso se stesse.
Il vero interrogativo, quindi, non è se il coronavirus si trasformerà in una specie di peste nera che infetterà milioni di persone mettendo in ginocchio gli scambi mondiali. I padroni del vapore sanno, come sappiamo noi, che ciò non accadrà.
La vera domanda è se essi – epidemia o no – saranno in grado di arrestare il gioco al ribasso prima che questo si trasformi in una replica della grande crisi del 2008-10. Crisi che è partita dalla finanza americana e si è estesa all’economia reale di mezzo pianeta fino a che la Cina non l’ha fermata con potenti misure controcicliche e con la sua indipendenza da Wall Street.
Siccome dopo il 2010 non si è fatto nulla per riformare l’architettura finanziaria globale limitando l’arbitrio dell’élite predatoria che la domina, l’economia mondiale è rimasta molto vulnerabile. E nel caso si debba fronteggiare lo scenario peggiore, su questo piano è ormai tardi per agire. L’instabilità congenita dei mercati capitalistici non conosce mezze misure e assisteremo impotenti a un’altra devastazione.
Allo stato attuale delle cose, governi, Banche centrali e imprese non finanziarie devono solo sperare che lo slump appena iniziato rappresenti solo una inevitabile correzione degli eccessi accumulati lungo un decennio di espansione delle Borse. Oppure, paradossalmente, devono confidare che esso sia davvero legato solo al coronavirus e ne segua perciò la parabola declinante. Non resterebbe altrimenti che affidarsi a un nuovo salvataggio cinese.