l'Unità, 22 feb. 2011
L’editoriale di Pino Arlacchi
Dalla Libia giungono notizie drammatiche e contraddittorie. Il dittatore ha deciso di concludere nel sangue la sua avventura quarantennale e, mentre scrivo, il quadro cambia di ora in ora. Ma quali che siano i tempi e gli esiti della rivolta del popolo libico, è chiara e consolidata la direzione dei processi in atto nel mondo arabo: siamo in presenza di un’ondata paragonabile a quella che, negli anni Ottanta, portò la democrazia in America latina e, negli anni Novanta, nell’Europa dell’Est. Siamo in presenza di eventi di portata storica.
Come Occidente ci siamo arrivati impreparati. Alcuni governi attribuiscono la responsabilità di ciò agli organismi di intelligence. In effetti i precedenti non mancano. È noto che la Cia non riuscì a vedere il crollo del comunismo e che non si è stati capaci di avvertire lo shock petrolifero, l’ascesa della Cina, l’odierna virata a sinistra dell’America latina. Potremmo compilare una lista molto lunga.
Ma non includeremmo la sorpresa di queste ultime settimane. No, questa volta la colpa non è di 007 incapaci, ma di un errore di prospettiva culturale. Abbiamo vissuto nell’idea dello scontro di civiltà con l’Islam e con suo inevitabile corollario: l’incompatibilità tra l’Islam e la democrazia. Ci siamo cullati nella presuntuosa convinzione d’essere, noi occidentali, i monopolisti della democrazia fino a escludere, nelle scelte di politica internazionale, quella che continuavamo a predicare: la sua universalità. E ora siamo qua, a bocca aperta, a guardare eventi enormi che, in realtà, non sono affatto sorprendenti.
E non è finita. Perché un po’ per cinismo, ma probabilmente anche per stupidità, c’è chi si ostina a trasferire quel pregiudizio di “incompatibilità” tra democrazia e Islam al presente: minimizza quanto è accaduto in Tunisia, in Egitto, e sta accadendo in Libia, e sostiene che questi processi alla fine consegneranno quei paesi ai Fratelli musulmani e al fondamentalismo islamico. È la parola d’ordine della destra internazionale – adottata con passiva disciplina dal nostro governo – che fa breccia anche tra commentatori prudenti e moderati. Alcuni giorni fa sul Corriere della sera c’era chi si domandava se in fondo non fosse meglio la “stabilità” garantita dai governi autoritari di queste potenziali “democrazie estremiste” governate da partiti islamici. C’è da chiedersi di quale stabilità parlino. Il Medio Oriente è da cinquant’anni l’area più instabile e conflittuale del mondo. La guerra internazionale più sanguinosa degli ultimi trent’anni si è combattuta tra Iran e Iraq con un milione di morti. E abbiamo forse dimenticato gli eventi tragici che si sono prodotti in Iran prima sotto lo Shah e poi sotto Khomeini? E le ripetute invasioni del Libano? E le guerre in Afghanistan e in Iraq con l’annessa invasione del Kuwait?
Dobbiamo opporci con fermezza a questo mix di cecità e colpevole oblio che produce alla fine gli imbarazzanti balbettii del ministro Frattini, ancora una volta l’ultimo a capire. La democrazia è il più grande fattore di stabilità e di pace di lungo periodo. Le democrazie riducono i budget militari, cioè gli strumenti della guerra. Sono il metodo della non violenza applicato ai rapporti interni e internazionali. E’ stato così in passato e sarà così anche nel mondo arabo.