l'Unità, 4 apr. 2011
L'Editoriale di Pino Arlacchi
È giunto il momento di fare il punto sulla situazione in Libia, e riflettere sulla possibilità di cambiare il tipo di intervento che stiamo conducendo. La proposta che avanziamo è quella di continuare la presenza internazionale nella crisi, ma con strumenti diversi da quelli usati fino adesso: l’attuale coalizione dovrebbe essere sostituita da una vera e propria missione di pace ONU, autorizzata da una nuova risoluzione del Consiglio di Sicurezza.
La ragione di ciò è la situazione di stallo che si è creata. Una situazione dove i ribelli non hanno la forza di marciare su Tripoli e sbarazzarsi di Gheddafi, e quest’ultimo non è in grado di riconquistare l’Est del paese, grazie anche agli attacchi aerei occidentali. I quali hanno distrutto le difese antiaeree libiche, ma non hanno portato il sistema avversario “al punto di rottura”, come appena dichiarato dal capo delle forze armate USA.
Una impasse è meglio del bagno di sangue che è stato impedito a Bengasi. L’intervento occidentale ha finora onorato il suo mandato, ma è inutile nasconderci che si sta camminando su un filo. L’intervento in Libia è di natura umanitaria, e serve a proteggere i civili. Un uso protratto della formula militare adottata finora può rapidamente rivoltarsi contro i suoi promotori. È successo tante di quelle volte che non si dovrebbe far finta di non avere imparato la lezione. Bastano una serie di missili fuori bersaglio e l’opinione pubblica araba e mondiale inizierà a denunciare il colonialismo petrolifero ed i prodromi di una guerra civile tipo Iraq e Afghanistan. Il consenso degli europei e degli americani all’intervento in Libia è già oggi sotto il 50%.
La pianificazione militare degli interventi NATO e gli armamenti che vengono usati, d’altra parte, sono scatole chiuse, che non consentono alternative. Sono strumenti obsoleti, eccessivi, concepiti per scenari tipo seconda guerra mondiale. I bombardamenti, in particolare, sono ritenuti ormai un mezzo incivile e non risolutivo anche da esperti militari.
Consideriamo i possibili sviluppi. Cosa può accadere se lo stallo prosegue, e non avvengono fatti nuovi sul piano extra-militare?
L’invio in Libia di truppe di terra autorizzate dall’ONU e con il mandato di rovesciare la tirannia è da escludere. Gli Stati Uniti, inoltre, si sono dichiarati fermamente contrari a questa eventualità. Un eventuale spedizione franco-britannico “illegale”, senza avallo ONU, si configurerebbe come una avventura coloniale ed incontrerebbe l’avversione universale.
La coalizione anti-Gheddafi non avrà così altra scelta che espandere i raid aerei contro le forze di terra della dittatura, ed intraprendere un programma “coperto” di sostegno finanziario e militare ai ribelli, sperando che le risorse del tiranno si esauriscano prima possibile e lo scontro termini con la sua uscita di scena e l’insediamento di un governo di transizione.
Ma nessuno può prevedere, in realtà, né la durata effettiva né l’esito finale di questo conflitto. Le risorse di Gheddafi non sono infinite, ma quanto costerà alla popolazione libica la resistenza di un tiranno spietato e messo in un angolo, che dispone anche di un certo sostegno nel paese? Qualcuno parla di un 10% della popolazione schierata con lui, tra cui numerosi complici degli assassinii già effettuati, e pronti a commetterne molti altri allo scopo di restare impuniti.
Tutto ciò, inoltre, si chiama guerra civile, e il nostro non sarebbe più un intervento umanitario. Ci ritroveremmo risucchiati in un conflitto open ended, con migliaia di vittime, non autorizzato e non autorizzabile dall’ ONU.
L’idea degli aiuti ai ribelli, poi, è particolarmente infausta. A parte la violazione dell’embargo sulle armi alla Libia che essa comporterebbe, è dimostrato come questa misura non serva ad altro che a creare i nuovi contras, i nuovi mujaheddin e i nuovi Talebani.
È il momento, quindi, di imboccare un’altra strada. Quella di un immediato cessate il fuoco, richiesto dall’ONU e sostenuto dalla minaccia di una ripresa dell’uso autorizzato della forza in caso di non rispetto dei suoi termini. Un cessate il fuoco appoggiato dalla Lega araba e dall’Unione africana, accompagnato e seguito da una robusta missione di mantenimento della pace, composta anche da caschi blu della regione, che consenta l’apertura di un negoziato ed una soluzione politica della crisi.
La sola notizia di una entrata in campo delle forze di pace dell’ ONU incentiverebbe la fine delle ostilità in corso. Entrambe le parti sarebbero più inclini a trattare se potessero contare sulla presenza dei caschi blu come forza di interposizione. Le stesse parti, inoltre, si sono indebolite nelle ultime settimane, e ciò le sta spingendo a cambiare le rispettive posizioni. Venerdì scorso, dopo settimane di rifiuto di ogni negoziato con il regime, il capo del Consiglio nazionale di Bengasi ha dettato i suoi termini per un cessate il fuoco, chiedendo il ritiro delle forze di Gheddafi da tutte le città libiche e la possibilità di tenere “pacifiche manifestazioni”. Intendendo così creare le condizioni per una successiva messa fuori gioco del colonnello. Mentre gli ufficiali di Gheddafi hanno respinto prontamente questa offerta definendola “un trucco”, sta diventando evidente che vari membri del regime stanno cercando di porre fine alla crisi tramite una soluzione negoziata. Da qui i contatti tra membri della famiglia Gheddafi e gli inglesi, e tra esponenti del governo libico e dirigenti del Dipartimento di stato.
Ci sono anche altri giochi in corso, ma è abbastanza evidente che una missione di pace ONU si profila a questo punto come l’unica via d’uscita praticabile per tutte le parti in causa. I caschi blu opererebbero come in vari altri contesti, senza aerei, né missili, né carri armati. Lavorerebbero in primo luogo come promotori del negoziato per il cessate il fuoco e ne sorveglierebbero l’attuazione. Provvederebbero alla smobilitazione dei combattenti, e all’allontanamento dei mercenari dalle zone di conflitto. In secondo luogo, agirebbero come forza di protezione sociale, tutelando le operazioni di assistenza umanitaria e garantendo lo svolgimento di elezioni democratiche. Sfatiamo il mito della inefficacia delle forze di pace. Le missioni internazionali funzionano nella maggior parte dei casi. E noi italiani dovremmo essere orgogliosi del nostro contributo. Con Massimo D’Alema esemplare ministro degli esteri, abbiamo animato in Libano nel 2006 una delle maggiori storie di successo del peacekeeping. Si trattava evvero di un conflitto interstatale, ma si sono prevenuti comunque possibili massacri, in un contesto fratturato e instabile come e più della Libia. I cinici obietteranno che i caschi blu made in Italy sono ancora lì, sia pure in numero ridotto. Ma anche il Libano è ancora lì, perché non è stato travolto dalla furia della guerra.
E qual è l’ alternativa, nel caso della Libia?
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