l'Unità, 21 gen. 2013
l'Analisi di Pino Arlacchi
L’intervento in Mali era necessario per fermare la crescita del terrorismo mafioso in Sahel. Ma occorre anche riconoscere che la narrativa corrente a proposito del Mali, quella di un governo democratico assediato da terroristi decisi ad instaurare un piccolo regno del male nel cuore dell’ Africa, è semplicistica.
L ’intervento francese era una mossa obbligata, ma è anche l’epilogo di una vicenda sgradevole, che dura da 30 anni, e che chiama in causa un comportamento ricorrente delle potenze occidentali nelle crisi che avvengono nei Paesi emergenti. Mi riferisco alla manipolazione dei gruppi insurrezionali e anche terroristici da parte dell’intelligence europea e americana, e alle vendite indiscriminate di armamenti che finiscono in mano a forze ostili.
Si sta ripetendo oggi nel Sahel quanto è già avvenuto in Afghanistan, in Somalia, in Libia, in Iraq ed altrove. Ex-amici, ex-servi o ex-clienti si stanno rivoltando contro i loro sponsor usando proprio le armi che questi gli avevano dato o venduto. Tra i “terroristi” del Sahel ci sono vecchie conoscenze dei servizi di sicurezza algerini e occidentali sfuggite al loro controllo. La leadership eversiva, la Al Queda del Sahel, è in realtà un impasto di mafia e terrorismo che viene per la prima volta alla ribalta, e che non sarà facile sconfiggere se non si smettono le pratiche insensate che l’hanno favorita.
La crisi del Sahel è un capitolo del gioco temerario che le "grandi potenze palesi" hanno ingaggiato con le "mini-potenze occulte" negli ultimi 30 anni. Un gioco tuttora in corso in Siria, dove alcuni paesi occidentali non hanno resistito alla tentazione di armare l’estremismo islamico contro Assad senza calcolarne le nefaste conseguenze. Siccome questa partita si è sempre ritorta contro chi l’ha iniziata, alimentando guerre, terrore e sofferenze in vari angoli del pianeta, è bene iniziare a denunciarla sul piano della politica e dell’informazione. Il gioco maledetto è sempre lo stesso, ed ha tre fasi.
Piccoli gruppi di insorti per cause giuste o sbagliate, ma decisi ad usare la violenza e il terrore per affermarle, vengono a patti con potenze esterne impegnate nei grandi disegni della politica globale. Questi li finanziano, li armano e li addestrano direttamente, come nel caso dei Talebani e dei ribelli libici, o tramite sub-potenze regionali come nel caso dell’ Algeria-Sahel. Per il "potere forte" lo scopo del patto clandestino può essere colpire un avversario strategico senza sfidarlo frontalmente (l’ Afghanistan durante la guerra fredda), sostituire un regime diventato inviso ( la Libia di Gheddafi), rafforzarne segretamente un altro (il governo algerino che crea i falsi islamisti del GIA per screditare gli oppositori durante la guerra civile degli anni ‘90), gonfiare una minaccia per giustificare azioni militari e budget della sicurezza (il rischio terrorismo nel Sahel sfuggito di mano ai suoi creatori). Ma la ratio del gioco può anche essere il puro e semplice controllo della marionetta in vista di usi futuri.
Il punto è che i ribelli beneficiari di armi, denaro e training militare all’inizio dimostrano di stare ai patti, e si rafforzano in potere e consistenza. Ma arriva un punto in cui essi finiscono col fare di testa propria, perché le circostanze sono cambiate, o perché si sentono abbastanza forti per camminare da soli. Si rivoltano allora contro i "protettori" ed usano contro di loro proprio le risorse che avevano ricevuto per fare il lavoro rischioso e sporco concordato. È stato così con i missili Stinger forniti dalla CIA ai mujaheddin afghani per abbattere gli elicotteri russi negli anni ‘80 e poi usati dopo il 2001 contro le truppe NATO dagli stessi mujaheddin diventati Talebani. L’ episodio più recente sono le armi e il training militare occidentali ricevuti in Libia dalle milizie tuareg serviti per rovesciare il governo del Mali l’anno scorso e consolidare l’alleanza con le formazioni terroristiche del Sahel.
I clienti e i servi ribelli si rendono conto di avere imboccato una strada senza uscita. I loro ex-padroni li usano adesso come simboli del Grande Nemico da abbattere e mobilitano coalizioni di volenterosi per difendere libertà, democrazia e budget per la difesa. Anche i governi ex-amici, (Saddam Hussein, Talebani, Gheddafi) prima foraggiati senza problemi, passano per questa fase.
Gli ex-amici vengono così spinti verso la radicalizzazione estrema. Consapevoli di soccombere di fronte alla schiacciante forza militare occidentale, diventano disposti alle avventure più estreme. Ed è qui che si imbattono in un potente alleato, che è la criminalità organizzata. Ma accade anche che si trasformino essi stessi in mafie, nel corso di un processo che è inesorabile. Venute meno le risorse dei grandi poteri esterni, gli insorti devono trovare fonti autonome di finanziamento. E’ quello che nel gergo dell’ intelligence si chiama “blowback”, (contraccolpo), ma che i criminologi chiamano più propriamente “ibridazione”: Fusione tra criminalità organizzata e terrorismo.
Il caso dell’ insurgency del Sahel fa scuola al proposito. La sua leadership è formata da una parte soccombente, l’MNLA, la formazione indipendentista dei tuareg, i nomadi del deserto discriminati e oppressi da tutti, ed una parte vincente, costituita da varie sigle jihadiste (Ansar-al-Din , MUJAO, AQIM) infiltrate dall’ intelligence algerina fin dagli anni ’90. Arrivata la rottura con gli sponsor, questa Al Qaeda fasulla ha cercato di sostituire la protezione algerina –perfettamente nota agli sconsiderati servizi occidentali- con i sequestri di persona, il traffico della droga e il contrabbando. Più di 60 rapimenti di occidentali dal 2003 hanno fatto crollare l’industria turistica, cioè la principale fonte di reddito legale per le comunità tuareg , spingendo molti dei loro giovani verso il banditismo e le attività illecite. Secondo l’ONU, il 60% del traffico di cocaina colombiana diretta in Europa passa proprio per le mani delle mafie del Sahel.
L’ ibridazione con la mafia ha funzionato talmente bene da trasformare la natura dei gruppi insurrezionali: nel Sahel stiamo fronteggiando una coalizione di mafie di prima classe, che sono anche gruppi terroristici di terza classe, e non l’ inverso.