L'intervento di Pino Arlacchi
Imperversa sui media italiani una autentica telenovela sulle farneticazioni di un capomafia di 84 anni, carcerato da 21, che un tempo fu il capo di Cosa Nostra siciliana. Farneticazioni e “minacce” contro tutto e tutti: da Berlusconi ai PM, dai suoi ex sodali mafiosi al suo presunto successore alla guida di una mafia del tempo che fu.
La telenovela sta in piedi per vari motivi, ma non impressiona più nessuno perché la credibilità dello sfogo di Totò Riina è vicina allo zero. Per fortuna. E come tale viene ritenuta da chiunque conosca un po’ l’argomento.
Le parole di Riina non sono la punta di nessun icesberg. Non sono l’annuncio dell’Apocalisse, ma la confessione di impotenza di un vecchio delinquente, sconfitto dallo Stato e dalla vita, che finirà i suoi giorni solo e dimenticato come Luciano Liggio, Gaetano Badalamenti e il suo compare Bernardo Provenzano. Riina ha un figlio all’ergastolo. I suoi sodali, parenti, amici e protettori si sono dileguati. I mafiosi rimasti fuori dal carcere o latitanti lo ignorano e vanno per la loro strada da molto tempo. Ma di loro sappiamo poco perché lo stereotipo mediatico-giudiziario sulla mafia è fermo a 30 anni fa.
A fatti, personaggi e storie di allora che rappresentano un trauma collettivo che non riesce a venire superato.
Sta fallendo anche il tentativo di collegare le “minacce” di Riina al processo in corso sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia. Un evento mai esistito nei termini descritti dalla Procura di Palermo. E comunque una storia di 22 anni addietro, i cui protagonisti sono deceduti, incapacitati o troppo vecchi per difendersi o vendicarsi. È solo il circo mediatico-giudiziario che si ostina a tenerla in piedi, e sarebbe ora che gli inquirenti iniziassero a dedicarsi a qualche indagine più attuale.
Dice bene il PM Nicola Gratteri quando afferma che i mafiosi del tempo di Riina sono morti, o in carcere sotto il 41 bis, e che la nuova sfida è la criminalità organizzata, mafiosa e non, alleata della politica corrotta. Come prima e più di prima, ma con importanti differenze che sarebbe fatale non capire.
Dice bene Gratteri, ma la conseguenza logica di quanto afferma è che inquirenti, Parlamento e governo rischiano di restare indietro di alcuni decenni rispetto all’evoluzione della grande criminalità.
Una prova? Il recente rinnovo, sic et simpliciter, della vetusta Commissione parlamentare sulla mafia, la cui legge istitutiva è di 40 anni fa. L’Antimafia è congelata al secolo passato, quando non c’erano i PM antimafia, e la politica suppliva l’assenza di polizia e magistratura. Oggi la Commissione è solo uno stanco rituale parlamentare, che corre dietro o fa da cassa di risonanza alla magistratura inquirente. E che sarebbe perciò da riformare radicalmente o da abolire.
E le “minacce” a Di Matteo ed ai suoi colleghi, allora? Sono da ricercarsi nel rancore di vecchi assassini per il loro lavoro passato, per il loro lodevole impegno in indagini quelle sì vere, incisive. Che hanno portato a risultati che ancora fanno male, evidentemente a Riina e soci.
Il resto è iperbole ed esagerazione. Come le dichiarazioni e le analisi che ipotizzano una chiamata alle armi di Cosa Nostra capace di farci ripiombare nella stagione delle stragi. Dichiarazioni pompate oltre il consentito da giornali che pensano di vendere più copie lanciando allarmi gratuiti, e da politici che cercano consensi a basso prezzo.
Non capisco come si possa agire con tanta leggerezza. Gli sproloqui di Riina non sono il sintomo di nulla. Le registrazioni dei suoi colloqui in carcere sono iniziate nel giugno dell’anno scorso e da allora non è successo niente. E continuerà a non succedere niente. Perché i tempi sono cambiati.
Per fortuna. E in virtù della grandezza di Rocco Chinnici, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Antonino Caponnetto e tanti altri ingiustamente trascurati, il cui merito più profondo sta venendo alla luce solo adesso, a distanza. Questa élite virtuosa ha spezzato la schiena della Cosa Nostra di Riina con il maxi-processo del 1987. Ha sconfitto la strategia terroristico-mafiosa degli Anni 80 e dei primi Anni 90, combattendola assieme a quei pezzi dello Stato non collusi né organici alla mafia. Far passare oggi questi uomini come dei Don Chisciotte che combattevano mentre i vertici dello Stato negoziavano alle loro spalle è falso prima che ingiusto.
Chinnici, Falcone e gli altri hanno costretto la mafia siciliana ad inabissarsi ed a cambiare strategia per sopravvivere. Perdendo però terreno rispetto ai suoi partner del passato. Altre forze della grande criminalità si sono imposte. Politica corrotta e criminalità finanziaria, fuse o no nella mafia, dominano sempre più il palcoscenico dell’illegalità italiana e mondiale. Delinquenza politica e finanza criminale hanno bisogno dell’uso della forza solo in casi limite, e la violenza come forza dell’accumulazione illecita sta declinando dappertutto. Abbiamo di fronte forze più insidiose e più agguerrite, di cui la mafia classica è solo una componente.
Lavoriamo dentro questi scenari invece di riciclare e distorcere vecchie storie.