di Pino Arlacchi, 30 mag. 2010
La Conferenza di revisione dello Statuto della Corte penale internazionale si apre domani qui a Kampala, e mi sono impegnato con i lettori del sito ad informarli sui temi di fondo che sono in ballo. Ma prima di farlo, consentitemi di comunicarvi le mie osservazioni su ciò che ho trovato in Uganda. Per un sociologo empirico come me, le impressioni dirette, ottenute in prima persona sul terreno, hanno un valore che è quasi pari all’analisi quantitativa, quella fatta di cifre e dati più o meno ufficiali su un dato contesto.
L’Uganda è una piacevole sorpresa. Il primo impatto col paese, l’altro ieri, è stato molto positivo. Sono diventato negli anni un esperto di situazioni estreme. Dalla mia Calabria di provenienza, all’Afghanistan, all’Iran, alla Colombia, ai Balcani,al Myanmar, Laos e simili ho avuto a che fare per l’intera mia vita professionale con paesi,popoli e persone vittime del male grande e meno grande.
Il mio occhio è allenato nel riconoscere da alcuni piccoli particolari, da un dettaglio a prima vista insignificante, un quadro più ampio, la traccia di un processo generale.
Il tragitto dall’aeroporto di Entebbe al centro di Kampala dura un’ora, e la strada attraversa zone povere e ricche, urbane ed agricole, congestionate e non, in una sequenza di paesaggi che prende subito, e non lascia spazio per la stanchezza del dopo volo. Le strade sono piene di vita, brulicano di gente indaffarata, che va da qualche parte con uno scopo nella testa. Non ci sono gli astanti che osservano,oziano,sostano, dormono come in altri posti del Terzo Mondo, e che fanno venire in mente la domanda del perché stanno lì invece di essere altrove.
La prima impressione dell’Uganda è quella di un paese giovane, dinamico, proiettato verso il futuro e con una grande voglia di vivere senza pensare troppo al passato più recente.
La tragedia di questo paese è stata una sanguinosa guerra civile che è durata una ventina di anni al prezzo di oltre 500mila vite. La tirannia di Idi Amin, il grottesco Nerone che ha distrutto la reputazione dell’Uganda negli anni’70, è stata solo una parte della sofferenza degli ugandesi. Ma dopo il 1986, con l’avvento di un presidente “normale” come Musaveni (che è tuttora al potere), e con il raggiungimento del “pieno” della sopportabilità di disordini ed atrocità, tutto si è rovesciato, e il Paese ha iniziato un percorso virtuoso, di crescita, di stabilità e di buon governo i cui effetti sono visibili in tutti i campi.
L’Uganda è cresciuta negli ultimi vent’anni a un tasso quasi “cinese” del sette, otto per cento del GDP all’anno, riducendo grandemente la povertà, la miseria e l’incidenza dell’AIDS. Tutto ciò in gran parte con le sue proprie forze, e talvolta,come nel caso della lotta all’AIDS, contro le ricette dei donatori occidentali.
Mi sono sorpreso un paio di volte a pensare, e sperare, che presto anche il paese più disastrato del mondo, l Afghanistan, riesca a fare come l’Uganda.
L’Uganda che ho trovato è una storia di successo, che si affianca a quella di altri paesi africani, e che offre una buona spiegazione alla inaspettata caduta di oltre il 40% delle violenze e delle guerre civili in Africa negli ultimi 10 anni.
Continuando così, tra una decina di anni l’Africa non sarà più il campo di battaglia che è stato negli anni dal ’70 al ’90, e di cui si occupa oggi la Corte penale internazionale.
Come potete constatare, sono un disastrologo non catastrofista.
E veniamo ora al punto della Conferenza di Kampala. Essa è anche un bilancio dell’attività della Corte a 12 anni dalla sua istituzione e a 8 anni dall’inizio della sua attività. Il bilancio non è entusiasmante. Solo quattro casi istruiti finora di crimini di guerra e contro l’umanità, e tutti contro esponenti politici africani. Nessuna condanna ancora, e una istituzione organizzata male, con una burocrazia inefficiente e pletorica stile Nazioni Unite: 600 persone provenienti da 80 paesi, che costano oltre 100 milioni di euro all’anno, forniti quasi tutti dall’Europa e dal Giappone.
È indispensabile, perciò, procedere a un ampliamento dei compiti e della giurisdizione della Corte, correggendone l’inclinazione a trattare casi politicamente “facili”, di individui provenienti da paesi e zone deboli (Repubblica democratica del Congo, Repubblica centroafricana, Sudan, Uganda del Nord), e rendendola più autorevole ed efficiente.
La strada maestra per ottenere questo risultato è approvare l’inclusione del crimine di aggressione nella sua giurisdizione e fare in modo che la Corte continui ad operare come un vero organo della “giustizia giusta”, cioè imparziale e indipendente da ogni altro potere. Un organo della giustizia universale, che non si fa intimidire dalla potenza degli stati di origine dei suoi imputati. Una Corte basata sulla avversione alla guerra che coinvolge ormai l’enorme maggioranza e dell’umanità.
L’argomento cruciale della discussione, e della votazione finale, che si terrà a Kampala riguarda l’inizio dell’attività della Corte su un dato caso di aggressione. Sarà il Procuratore della Corte, di sua iniziativa, a decidere l’apertura di un’indagine per aggressione contro i governanti di un paese, oppure sarà il Consiglio di Sicurezza dell’ONU a dare il via libera alla stessa indagine? La stessa questione si è posta nel 1998 durante la discussione del Trattato di Roma sui reati di guerra e contro l’umanità, e la decisione finale degli Stati fu di dare al Procuratore della Corte piena indipendenza. Fu una saggia decisione, ma essa influì sulla successiva decisione degli Stati Uniti di Bush di ritirare la propria firma dal Trattato. D’altra parte, l’indipendenza politica è la pietra angolare della credibilità della Corte e delle sue deliberazioni.
Nel 2002 è stato istituito un Gruppo di lavoro che ha lavorato su una serie di proposte, e ha anche tenuto conto delle varie situazioni che si possono profilare, tra cui quella, molto probabile, di una situazione di stallo nel Consiglio di Sicurezza dopo che la Corte gli ha chiesto di pronunciarsi a proposito di un possibile atto di aggressione internazionale.
In questo caso, secondo una serie di paesi che hanno partecipato al Gruppo di lavoro, se dopo 6 mesi il Consiglio non ha raggiunto un accordo, la Corte procede per conto suo (opzione 1). Secondo un altro gruppo di paesi (quelli appartenenti al Consiglio di Sicurezza), se il Consiglio non si mette d’accordo, la materia finisce lì e la Corte non può fare nulla(opzione 2). Come nel caso in cui il Consiglio di sicurezza dichiari l’inesistenza dell’atto di aggressione.
Tra i paesi europei che sottoscrivono il Trattato di Roma, solo la Francia e il Regno Unito aderiscono senza riserve all’opzione 2. Germania e Spagna sostengono con forza l’opzione 2, mentre Italia, Olanda e paesi scandinavi, pur aderendo all’opzione 2, propendono per una soluzione di compromesso.
Sulla base dei numeri, perciò, dato che nel complesso ben 38 Stati si sono già dichiarati per l’opzione 2, che prevede una netta distinzione tra i compiti di un organo politico come il Consiglio di Sicurezza e quelli di un organo giudiziario come la Corte penale internazionale, il risultato finale sembrerebbe abbastanza certo. I paesi di lingua araba e latinoamericani, nonché i paesi dell’Africa, il continente con la più vasta partecipazione di Stati all’Assemblea di Kampala, hanno sostenuto con forza l’idea di trasporre sul piano internazionale l’assetto dei rapporti tra politica e giustizia vigente nei regimi democratici.
Ma occorre stare attenti, perché l’influenza e le pressioni dei 5 membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, tre dei quali non hanno neppure sottoscritto il Trattato di Roma, sono molto insidiose, e possono dare luogo a sorprese nel momento del voto.