Un personaggio inattendibile che il giudice Falcone avrebbe smascherato in poche ore.
Alla base di tutto una “favola” senza riscontri e logica dei rapporti tra politica e Cosa nostra.
l'Unità, 23 apr. 2011
L'analisi di Pino Arlacchi
La Ciancimino-story si è conclusa come da copione, ma non perdiamo di vista le sue conseguenze. Che Massimo Ciancimino fosse un teste inattendibile era evidentissimo, e un magistrato come Falcone lo avrebbe smascherato in poche ore. Alcuni suoi successori ci hanno messo tre anni. Pazienza. Ma che senso ha insistere ancora sulla favola mediatico-giudiziaria della trattativa stato-mafia degli anni delle stragi di Capaci, via d’Amelio ed altre?
Giornali e televisioni hanno creato il mito di una serie di incontri, negoziati e “papelli” vari intercorsi tra capimafia e forze dell’ordine, aventi lo scopo di trattare una via di uscita per Cosa Nostra dalla sconfitta del maxiprocesso del 1986-87.
Perché mito di una trattativa in realtà mai esistita? Perché chi lo ha alimentato parla di fatti che galleggiano nell’aria, privi di contesto e zeppi di omissioni. Il contesto è l’Italia di quegli anni, e le omissioni riguardano i titolari delle presunte trattative. Cominciamo da questi.
Pensare che l’ex-sindaco di Palermo, Vito Ciancimino, potesse avere la rappresentatività necessaria per negoziare con il governo una tregua con Cosa Nostra, significa non avere idea degli assetti vigenti all’interno della mafia, e tra essa e lo Stato nell’anno di grazia 1992. Ciancimino era all’ epoca un mafioso emarginato, screditato, e da tempo in disarmo. Il suo principale interlocutore, il colonnello Mori, era un carabiniere spregiudicato e ambizioso, che si muoveva in proprio, senza alcun mandato politico, affidandosi al metodo obsoleto dei confidenti, fuori dal mainstream investigativo e giudiziario. I suoi contatti con Ciancimino erano noti agli investigatori dell’ antimafia, e li ricordo bene: erano oggetto più di ilarità che di preoccupazione.
In quegli anni ero ai vertici della DIA e collaboravo con il ministro degli Interni. Credo perciò di avere credenziali sufficienti per affermare che la verità storica è all’opposto di quanto è stato fatto dire al signor Ciancimino: fu proprio l’assenza di interlocutori politici credibili dal lato dello Stato con i quali intavolare una trattativa a spingere Riina ed i suoi verso la scelta stragista. Una scelta condivisa e sostenuta attivamente da un pezzo dello Stato medesimo. Un pezzo di Stato che ruotava intorno a Giulio Andreotti, che aveva dominato in passato, e che si sentiva in pericolo mortale. Stretto com’era tra la vendetta di Cosa Nostra che lo voleva punire per la mancata protezione dal maxiprocesso e dalle indagini di Falcone-Borsellino da un lato, e dal tornado investigativo che non risparmiava più nessuno, dall’altro.
Arriviamo così al contesto, cioè l’Italia del tramonto della Prima repubblica. Tra il 1991 e il 1994 l’antimafia è stata un fiume in piena, nel quale sono confluite, dopo il 1992, le acque di Mani Pulite. Durante questa stagione non si colpirono solo capi e i gregari delle mafie. Si picchiò sull’intero spettro delle complicità.
Furono incriminati per reati gravi quattro ex presidenti del Consiglio e due ex ministri dell’Interno. Altri dieci ex ministri furono messi sotto accusa per corruzione. Un terzo dei parlamentari nazionali in carica e la metà dei consiglieri regionali siciliani finirono sotto inchiesta. Oltre quattromila uomini politici di vario livello furono denunciati per corruzione e associazione criminale.
Il pressing non si fermò davanti a nessuna soglia istituzionale. Il Csm aprì in poco tempo settantatré procedimenti disciplinari contro magistrati trasferendone undici. Tre procuratori della Repubblica furono arrestati. Alti dirigenti dei servizi di sicurezza furono messi sotto accusa e condannati oppure obbligati a dimettersi.
Gli avvenimenti si susseguivano a un ritmo che in certi momenti mozzava il fiato. Nel giro di tre giorni, per esempio, dal 27 al 29 marzo 1993, due diverse procure inviarono quattro avvisi di garanzia a personaggi ritenuti intoccabili, facendoli cadere per sempre dal loro piedistallo: Andreotti, Gava, Cirino Pomicino e Carnevale. Sei giorni dopo lo stesso trattamento veniva riservato ad Arnaldo Forlani, e il 6 aprile la Commissione parlamentare antimafia scriveva a chiare lettere, in una relazione votata a larghissima maggioranza, ciò che alcune minoranze di italiani avevano pensato e scritto per decenni: che il potere mafioso e il potere politico erano andati a braccetto quasi per l’intera storia dell’Italia unita.
Le consorterìe legate ai poteri illeciti restavano forti, ma si trovavano sulla difensiva. Per molte di esse, solo la forza d’urto di Cosa Nostra come parte di un progetto eversivo in grande stile poteva ridurre alla ragione le Procure, le sinistre ed i movimenti antimafia. Sul governo ormai non si poteva più contare.
Solo un uomo politico votato al suicidio poteva imbarcarsi nell’avventura di un negoziato a tutto campo con i capi di Cosa Nostra in galera. Erano anni in cui l’intera classe politica era allo sbando, e solo quei politici ancien regime che sposavano senza riserve la causa dell’antimafia riuscivano a sopravvivere.
Non a caso nelle istituzioni chiave dello scontro con Cosa Nostra finirono esponenti democristiani e socialisti come Scotti, Martelli e Mancino che appoggiavano senza riserve l’opera di Falcone, Borsellino e associati. E che nel governo agivano di propria iniziativa, varando un provvedimento più micidiale dell’altro.
Certo, il vuoto politico fu presto riempito dalla vittoria a sorpresa di Berlusconi nella primavera del 1994. Ma chi considera questa scadenza come prova del trionfo del patto stato-mafia non è molto ferrato nella logica. E nelle date. Il primo Berlusconi fu una breve parentesi. Durò meno di nove mesi, seguiti da 6 anni di Dini e centro-sinistra, fino a metà del 2001. Come successo di un progetto controrivoluzionario non c’è male. Un patto stato-mafia, o le stragi, per portare i comunisti al governo?