l'Unità, 3 mag.2011
L'Editoriale di Pino Arlacchi
L’enfasi suscitata dalla notizia della morte di Bin Laden è, tutto sommato, inferiore a quella che ci si poteva aspettare in relazione all’enormità dell’evento.
Nelle reazioni americane, le tracce della “esagerazione della minaccia terrorista” del post 11 settembre, pur presenti, sono temperate dalle preoccupazioni per altre possibili ripercussioni e, in particolare, per le temute reazioni di Al Queda. Pochi parlano di “vittoria nella terza o quarta guerra mondiale”, di “trionfo finale del bene sul male” o di “liberazione dell´ Occidente da una minaccia mortale”. È rimasto solo Schifani a parlare dell´eliminazione di Bin Laden come di un evento che cambia la storia. L’attenzione del mondo è ormai altrove e, in pochi giorni, si volterà pagina. I tempi del catastrofismo sul futuro della democrazia occidentale e della pace internazionale sotto attacco fondamentalista volgono al tramonto. Si sta facendo strada una visione più realista delle insidie alla sicurezza internazionale e alla stabilità politica interna.
Per esempio, sta facendo rumore un documento redatto all’interno Pentagono nel quale ci si interroga se non sia il caso di smetterla con la sbornia militarista dell’epoca di Bush e non si debba invece investire di più nell’educazione e nella formazione dei giovani. Il capo delle forze armate USA ha già dichiarato più di una volta che la maggiore minaccia alla sicurezza del suo paese non è Al Queda ma l’immenso debito pubblico. Gli occhi di tutti sono ormai puntati su temi completamente diversi da quelli del decennio passato. È terminata l’ossessione della minaccia islamica e della esportazione della democrazia. Si discute di nuovo dei grandi temi ambientali, delle crisi finanziarie e della riforma del sistema monetario internazionale. Ci si appassiona per la questione energetica, per la transizione democratica del mondo arabo, e per l’emergenza delle nuove potenze globali come i BRIC (Brasile, India, Cina e Russia), la Turchia, l´Indonesia, il Sudafrica ed altri. Non ci si può sottrarre, perciò, a una sensazione di vecchio, di stantio, nel vedere le foto di Bin Laden, nell’ascoltare la rievocazione dei suoi proclami, e nell’assistere ai tentativi di farci rivivere paure per catastrofi post 11 settembre che non si sono mai realizzate.
In effetti, Bin Laden era già da qualche tempo un morto che cammina. Ancora prima di essere mandato all’altro mondo dalle forze speciali americane, lo sceicco saudita era stato già eliminato - assieme ad Al Queda e soci - dalla scena politica e dall’immaginario collettivo del mondo arabo. Proprio lui ed i suoi erano stati le vittime più inaspettate della rivoluzione democratica del Nordafrica e del Medioriente. Terrorismo e fondamentalismo islamico non hanno svolto alcun ruolo in quei cambiamenti epocali. Anzi, sono stati colpiti nel loro vero tallone d’Achille: un’irrilevanza sostanziale che si è manifestata nell’incapacità di cambiare davvero il corso delle cose. E, per colmo di ironia, sono stati messi fuori gioco proprio da quelle masse che avrebbero dovuto seguirli nella guerra santa. I dimostranti delle piazze Tahir hanno buttato giù le autocrazie guardandosi bene dal far ricorso a strumenti dell'armamentario estremista: le atrocità contro gli innocenti, la fomentazione dell’odio religioso, l’antioccidentalismo e l’antiamericanismo più viscerali. Il rigetto del fanatismo e l’accettazione della democrazia come metodo della non violenza non potevano essere più completi.
È per queste ragioni che non ci sarà alcuna tremenda vendetta per l’uccisione di Bin Laden. Non vedremo alcun 11 settembre bis, né ora, né nel prossimo futuro. Chi agita queste paure non ha colto i significati profondi della sconfitta politica e culturale del terrorismo islamico. Che è anche una sconfitta per quanti, sulla minaccia dell’Islam all’Occidente, hanno costruito fortunate carriere politiche ma disgraziate avventure militari.