Roma, 16 gennaio 2010
Le opere e i giorni di un mafioso, e il mondo arcaico e brutale di Cosa Nostra siciliana non erano mai stati fatti rivivere a teatro con la stessa vividezza, intelligenza e profondità dell’ interpretazione di Pino Caruso. Egli è riuscito a compiere un’impresa che sembrava impossibile: generare una narrativa sulla mafia italiana all’ altezza di quella sulla delinquenza organizzata degli Stati Uniti. “Mi chiamo Antonino Calderone” è in grado di reggere il confronto con il capolavoro di Mario Puzo, con la serie televisiva dei “Sopranos” e con il film di Martin Scorzese su “Quei bravi ragazzi”.
La scelta di una chiave espressiva che aderisce strettamente ai fatti ed ai personaggi, i toni sobri della recitazione, e i contenuti secchi, essenziali del racconto che rifuggono dall’enfasi retorica e dagli stereotipi correnti sulla mafia siciliana, sono gli ingredienti di una narrativa che finisce con l’ avvincere come una tragedia greca.
Siamo nel campo della vera arte, e perciò anni luce lontani dalle fiction semi-demenziali su Cosa Nostra, con i loro attori dalle facce di bambocci, la loro Sicilia da spot pubblicitario, e l’ insopportabile banalità dei dialoghi, degli ambienti e degli intrecci. Grazie, Pino Caruso. Mi sembrava di vederlo, Nino Calderone, raccontare davanti a me e al registratore con la sua voce bassa e con i suoi toni dimessi le cose più terribili, le sofferenze quasi indicibili, gli atti più osceni e depravati cui aveva assistito e partecipato.
Grazie, Caruso, per avere reso il senso del delitto, del castigo e del pentimento trattando la materia con tocco lieve, modesto, talvolta perfino ironico, senza declamare dalla terrazza del grand hotel sull’ abisso, nè fare la predica antimafia a nessuno. Perchè è da questa miscela di furie demoniache e di discrezione espositiva che nasce il pathos singolare di questa rappresentazione, e la potenza nascosta del suo messaggio di liberazione.
Pino Arlacchi