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Immigrazione non fa rima con delinquenza

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Il Fatto Quotidiano, 28 Novembre 2019

Circa 30 anni fa, in Italia, è iniziato lo spettacolare declino della criminalità violenta e il simmetrico incremento della sicurezza individuale. I tassi di omicidio, cioè l’indicatore più attendibile del livello complessivo dei reati, si sono ridotti dell’83% dal 1991 al 2018: da 1916 a 331 casi all’anno. Sono 0,55 morti per 100 mila abitanti. Un tasso tra i più bassi del mondo. Reati gravissimi come i sequestri di persona sono scomparsi da oltre un decennio, e tutto il resto della delinquenza privata, dai furti (-40%) alle rapine (-53%), è anch’esso fortemente diminuito. La violenza mafiosa è crollata a un punto tale da configurare una svolta di proporzioni storiche: 856 omicidi di mafia nel 1988-92 contro 15 nel 2013-17. Come se non bastasse, la débâcle criminale è avvenuta in contemporanea a una colossale ondata migratoria che ha scosso dalle fondamenta la società italiana. I reati gravi hanno cominciato a diminuire proprio mentre la popolazione nata all’estero iniziava una crescita di quasi venti volte.

Secondo le teorie sociologiche correnti, questo esercito di giovani maschi, candidati naturali al disadattamento e alla protesta violenta, avrebbe dovuto far impennare tutti gli indici della delinquenza. Queste teorie si basano su quanto è in effetti accaduto negli Stati Uniti tra l’Ottocento e il Novecento quando il crimine organizzato era un valido strumento di ascesa sociale per generazioni di giovani immigrati che si trovavano sbarrate le strade normali di avanzamento. Questo processo si è però interrotto negli anni Novanta del secolo scorso. Gli Usa hanno sperimentato un’“invasione” di immigrati del tutto simile a quello dell’Italia e dell’Europa, e anche lì la criminalità violenta è scesa invece di aumentare. È una semplice coincidenza?

I sociologi americani hanno affrontato il tema e trovato una risposta radicalmente controcorrente: la recente immigrazione ha attivamente contribuito alla flessione della criminalità. Secondo i ricercatori di Harvard, la variabile cruciale è il profilo socioculturale dei nuovi migranti: si tratta di gente “mite”, che proviene da ambienti dominati da valori familistici, comunitari, osservanti delle leggi. Chi proviene da questi luoghi non prende in considerazione l’illegalità e il mercato criminale come mezzi per farsi strada nella giungla della società di arrivo. Gli studi di Harvard sono stati confermati da varie altre indagini universitarie. Non abbiamo ricerche equivalenti in Italia. Ma ci sono elementi molto evidenti da considerare, il primo dei quali è simile alla variabile individuata negli Stati Uniti: molto spesso i giovani immigrati in Italia sono vittime delle mafie e delle clientele politiche dei Paesi di origine.

Un secondo fattore è la dispersione territoriale degli immigrati. Non si sono formati da noi quei vasti ghetti di giovani disperati, discriminati e sottoccupati, che popolano le periferie di Londra o Parigi. Gli immigrati in Italia mostrano buoni tassi di occupazione e nutrono, secondo le indagini disponibili, atteggiamenti non ostili verso la società ospite. E tutto ciò ci ha protetto anche dagli attentati terroristici. C’è poi da mettere in campo l’efficienza delle forze dell’ordine italiane che preclude agli stranieri l’accesso alle vette della piramide illegale. Ciò spiega perché i vuoti che le campagne antimafia hanno creato dagli anni 90 in poi nei piani alti della delinquenza non sono stati riempiti da cartelli mafiosi albanesi, rumeni o marocchini ma da gruppi e generazioni di autoctoni.

Quanto detto non è sufficiente a provare un rapporto di causa-effetto tra immigrazione e declino della criminalità. Ma si può tranquillamente affermare, in ogni caso, che l’“invasione” migratoria recente non ha affatto stimolato la violenza criminale, e che esistono indizi, semmai, di una sua possibile, indiretta, influenza deflattiva.

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