In campo una generazione istruita che vive nelle aree urbane. Non ha nulla da perdere perché è povera e senza futuro.
l'Unità, 30 gen. 2011
L'analisi di Pino Arlacchi
La prima cosa da tener presente sui movimenti di protesta che stanno scuotendo il mondo arabo è che non sono una passeggera turbolenza ma riflettono sconvolgimenti profondi. I cittadini contestano tirannie che li hanno maltrattati per decenni, ed hanno maturato su di esse un giudizio definitivo: se ne devono andare. Le ribellioni di questi giorni in Egitto, Tunisia ed altrove, d´altra parte, sono il seguito di manifestazioni dello stesso tenore che avvengono da anni senza che i media occidentali si siano degnati di occuparsene, e dureranno ancora, al di là degli alti e bassi, nel prossimo futuro.
La radicalità di questi movimenti deriva dal materiale umano che li anima. È una rivolta di giovani delle aree urbane, relativamente ben istruiti, non sposati. Soggetti che hanno largo accesso all´informazione, e hanno perciò una coscienza molto acuta dei loro diritti di base. Vogliono la democrazia e lo sviluppo perché sanno che altrove sono queste le chiavi del benessere e dell'equità sociale.
Nello stesso tempo, questi giovani hanno ben poco da perdere andando in piazza e rischiando la galera perché sono disperatamente poveri e senza prospettive.
I despoti al potere fanno bene a temerli. In ogni tempo e paese, è esattamente questa la base sociale delle ribellioni e delle guerre civili. Folle di giovani incazzati ed emarginati hanno buttato giù imperi e governi, fatto e disfatto teocrazie, fondato nuovi stati, colonizzato continenti, creato e distrutto civiltà. La Banca Mondiale, il programma ONU per lo sviluppo e legioni di sociologi e demografi parlano da anni di una "Youth bulge", una "bolla giovanile" che si è formata nei paesi più poveri e che anima la conflittualità politica e sociale dall’Afghanistan al Congo.
Superato un punto di rottura, le masse di giovani senza lavoro e senza futuro scendono in piazza e tentano di rimuovere collettivamente gli ostacoli che ciascuno di loro non riesce più a superare con l´arrangiarsi personale. Questo punto di rottura può derivare dalla pura crescita demografica, oppure può nascere dalle crisi economiche, da eventi traumatici esterni o da effetti imitativi. Oppure può essere generato da tutti questi fattori messi assieme, ed è quello che sta accadendo in Tunisia ed Egitto, ed accadrà in Giordania, Algeria, Marocco ed altrove.
Quale è e quale sarà la reazione delle oligarchie di fronte a questa ondata di protesta?
In passato, lo strumento più efficace di risposta a queste minacce non era la repressione, o lo sterminio fisico degli oppositori, ma la guerra. Quando un regime si rendeva conto che il malcontento popolare stava per raggiungere il livello di guardia, lanciava il suo paese in uno scontro militare che non era altro che un massacro tra due concentrazioni di giovani. La guerra, secondo uno dei suoi più grandi studiosi, Bouthoul, non è altro che un modo per eliminare l’eccedenza della classe più pericolosa di ogni società: i giovani appena usciti dall’adolescenza e in cerca del loro posto nel mondo.
Le autocrazie arabe oggi in pericolo non possono, tuttavia, usare questo strumento per sbarazzarsi della bolla giovanile interna, a causa dell’obsolescenza della guerra. La guerra internazionale è quasi defunta come pratica degli stati, e l’avversione ad essa è ormai universale. L’ultima cosa che un Mubarak farebbe per salvarsi sarebbe quella di mettersi contro l’ONU, l´Europa, la Lega araba e il resto della comunità internazionale lanciandosi nell´avventurismo militare.
La fuga alla Ben Alì è invece un’opzione sensata, ma di ultimissima istanza perché implica l’accettazione definitiva della sconfitta. La maggior parte delle autocrazie tenterà la strada del compromesso e/o della repressione, a seconda delle circostanze. Il compromesso con le domande giovanili e popolari viene anticipato in questi giorni dai governi della Siria e della Giordania che stanno discutendo pacchetti di misure di aiuto sociale. Il governo siriano ha già annunciato, dopo solo due giorni dalla rivolta tunisina, sussidi straordinari per i disoccupati e per le famiglie a basso reddito. Ma non sarà facile per regimi abituati a governare senza rendere conto ad alcuno convincere torme di cittadini sfiduciati del proprio improvviso attaccamento al bene pubblico. Solo cambiamenti drastici dal punto di vista costituzionale e delle politiche sociali e di sviluppo potranno impressionare i manifestanti e far attenuare le proteste.
La strada della repressione è la più rischiosa perché si può rivoltare contro chi la imbocca. Richiede inoltre un apparato della sicurezza molto forte, di cui solo l’Egitto e l´Arabia saudita dispongono. Mezzo secolo di aiuto militare americano, che per l´Egitto ammonta a 2 miliardi di dollari all’anno di armamenti sofisticati, ha creato un potenziale offensivo ragguardevole. Se Mubarak decide di soffocare nel sangue la domanda di democrazia e di equità che sale dal suo popolo, e se l´esercito e la polizia gli obbediranno, avrà purtroppo partita vinta. La regola enunciata dalla baronessa Chorley nel 1941 secondo cui nessun movimento popolare disarmato potrà mai prevalere contro la potenza bellica di uno stato, se quest´ultimo sarà in grado di usare nello scontro tutta la sua forza, e´ ferrea.
Ma l’uso della violenza contro i propri cittadini e´anche una strada senza uscita. Significa l´isolamento dalla società internazionale e dal suo sostegno politico ed economico. Significa solo posporre un problema che è endemico, che si ripresenterà più forte di prima, e che può essere risolto solo con la democrazia.