l'Unità, 9 mar. 2013
di Pino Arlacchi
Per ricordare la figura e l'operato di Hugo Chavez c'è chi usa espressioni come “ultimo caudillo”, “dittatore del petrolio”, ”sinistra populista”,”rivoluzione fallita”. Io la penso diversamente.
Secondo me la Presidenza Chávez è stata in realtà un successo difficilmente contestabile con validi argomenti. Essa va valutata nel contesto della grande trasformazione dell’America latina durante gli ultimi quindici anni. Una svolta epocale che ha portato al governo coalizioni di sinistra nella maggior parte dei suoi paesi. È la sinistra che vince. E che continua a vincere su una scala continentale elezione dopo elezione. Ciò può infastidire chi la pensa diversamente, a destra. Ma infastidisce anche una certa sinistra perdente, sfiduciata, che campa a rimorchio delle forze neoliberali in una condizione di subalternità e di compromesso avvilenti.
Cosa hanno fatto di speciale questi governi progressisti emersi nell’America Latina alla fine degli anni 90 e diventati una storia di successo che non si vedeva da 500 anni?
Hanno fatto tre cose alquanto di sinistra. Hanno redistribuito la ricchezza e il potere, hanno sfidato una dominazione imperiale che durava da due secoli, ed hanno guidato un processo di sviluppo socio-economico basato sul rigetto del pensiero unico neoliberale. Per ripudiare l’ ortodossia del libero mercato essi non hanno aspettato il suo crollo in Occidente dopo la crisi finanziaria del 2008. Tutto ciò è avvenuto nel pieno rispetto della democrazia e dei diritti umani, che hanno fatto grandi progressi in ogni angolo del continente. Ed è accaduto sviluppando per la prima volta l’ integrazione delle economie regionali assieme a un embrione di unione politica che prende a modello l’Unione europea.
I dati. Poiché quelli sul successo brasiliano sono noti, citerò qui quelli accuratamente oscurati sul Venezuela, dove il radicalismo di Chávez ha consentito passi in avanti più lunghi. Le cifre provengono dalla Banca Mondiale, dal FMI, dall’ONU e da altre fonti, e sono state pubblicate dal “Guardian” il 6 marzo scorso.
Dal 1999 ad oggi il PIL procapite venezuelano è più che raddoppiato, passando da 4100 a 10.800 dollari costanti. La fame è stata eliminata, e l’alfabetismo ha superato il 90%. La povertà assoluta è crollata del 70% riducendosi all’ 8% della popolazione, e quella relativa si è contratta del 50%. La disoccupazione e la mortalità infantile si sono quasi dimezzate. Sono pochissimi i paesi del mondo che si possono vantare di aver raggiunto simili traguardi in così breve tempo, e nel corso di una crescita demografica impetuosa. I venezuelani erano 24 milioni nel 1999 e 30 milioni nel 2012. I governi di Chavez hanno fatto raddoppiare il numero degli studenti universitari, messo in piedi una vera e propria sanità pubblica per tutti, ed hanno quadruplicato gli aventi diritto ad una pensione statale.
È vero che nello stesso arco di tempo il prezzo del petrolio è passato da 10 a 100 dollari per barile, ma ciò è valso per tutti i Paesi produttori, e non pare che nazioni come la Nigeria, Iran, Russia o le monarchie del Golfo abbiano redistribuito granchè della differenza. Chávez è stato il primo Presidente che invece di mettere nelle tasche proprie e dell’oligarchia venezuelana i proventi della bonanza petrolifera, per poi imboscarli nelle banche USA, li ha trasferiti ai propri cittadini.
Può averlo fatto senza tenere nel dovuto conto la sostenibilità e la qualità degli investimenti, è vero. E può anche avere trascurato problemi importanti quali la corruzione e la criminalità. Quest’ultima, in particolare, è molto aumentata, seguendo la crescita dei flussi di denaro e della generale affluenza. Ma sono limiti che possono essere superati dai governi futuri con correzioni di rotta e programmi ad hoc, che si muoveranno comunque nel solco tracciato da un grande Presidente, amatissimo dai diseredati ed ammirato da chiunque abbia fame e sete di giustizia.
È per queste ragioni che la primavera latinoamericana è destinata a durare. Essa sta beneficando un continente di 500 milioni di persone, grande quanto l’Europa, e molto legato a noi. Le nostre condizioni economiche e sociali sono differenti, ma non si può dire che le nostre sfide siano più ardue di quelle affrontate laggiù. Il miracolo sudamericano sta dimostrando che un mondo più decente è possibile. Si può vincere, ma ci vuole più consapevolezza delle alternative.